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Il virus in carcere, non sia un'ulteriore condanna   versione testuale
13 maggio 2020

Di carcere, nell’emergenza Coronavirus, si è cominciato a sentir parlare sin dai primi giorni di marzo, con le notizie sulle rivolte che hanno causato la morte di 13 detenuti. Poi si è passati a studiare e applicare le norme che il governo ha dedicato alla questione. Infine, in questi giorni, ci si domanda: quale “fase due” per le persone detenute?
Il carcere è una delle realtà spesso invisibili, che si palesano all'opinione pubblica in alcuni momenti critici, però attraverso un’informazione troppo spesso errata e strumentalizzata o, nel migliore dei casi, parziale. Non è certo una scoperta recente, ma un pensiero che da anni muove tante persone, volontari, associazioni, e anche operatori della giustizia e magistrati, a impegnarsi in opere e progetti di sensibilizzazione verso cittadini, studenti, imprenditori per ricordare che la pena, come stabilito dall’articolo 27 della Costituzione, deve tendere «alla rieducazione del condannato». Si tratta di attività che provano a raccontare realmente cos’è il carcere e com’è visto, osservato, vissuto da differenti ruoli e situazioni, compresa quella di chi ha subito un danno, e a buon diritto può definirsi vittima.
Ma procediamo con ordine. Cosa è accaduto con il presentarsi della pandemia? Tutte le fragilità e le incongruenze del sistema paese sono diventate improvvisamente tanto visibili da non poter più essere ignorate. È stato vero per ogni aspetto della nostra quotidianità, ma in riferimento ad alcune realtà – come il carcere – questi limiti hanno assunto e assumono una dimensione di pericolo per tutti.
Da più parti, da anni, si è alzata una chiara denuncia del sovraffollamento negli istituti penitenziari, purtroppo rimasta inascoltata. Una serie di azioni, pur previste dalla legge e concretamente operabili, non sono mai state messe in atto. Da tempo, anche per far fronte a questa esigenza, si provano a rendere fruibili misure alternative alla detenzione in carcere, anche per chi, oltre a essere detenuto, versa in una condizione di povertà o di degrado sociale o familiare, e dunque – in teoria – non avrebbe i requisiti richiesti.
L’impegno di associazioni, cooperative, delle stesse Caritas (attraverso il Progetto nazionale carcere), che hanno moltiplicato i luoghi di accoglienza per facilitare la fruizione delle misure alternative, non è stato però sufficiente. C’è voluta l’emergenza Covid 19, al suo palesarsi, a offrire una spinta in più. In carcere si rischia il contagio e questo potrebbe portare a una strage: non ci sono i dispositivi di sicurezza – che non sono sufficienti in tutto il paese, nemmeno per i sanitari – e non c’è lo spazio adeguato per essere distanti. Il rischio è alto. Le prime misure, giustificate, ma probabilmente non ben comunicate, sono state di chiusura. Fuori i volontari, stop a visite e colloqui. Tutto giusto, ma si sarebbe dovuto gestire meglio. Il rischio non è solo per i detenuti, ma anche per gli agenti e per quanti, a vario titolo, operano nei luoghi di detenzione, persone che mettono in pericolo anche le rispettive famiglie, quindi l’intera cittadinanza.
 
Ansie palcate, a macchia di leopardo
Successivamente è accaduto anche altro, con effetti positivi, nonostante l’amarezza del contesto. Ancora una volta, infatti, si è palesata un’immagine dell’Italia a macchia di leopardo. Solo in alcune parti del paese, infatti, diversi magistrati illuminati sono riusciti ad aumentare la concessione delle misure che, senza la necessità di alcuna nuova norma, avviano la diminuzione del numero delle persone detenute al’interno delle carceri.
Pian piano si è cominciato anche a organizzarsi per contrastare la possibilità di contagio: dalla predisposizione di tende per il pre-triage davanti agli istituti di pena, alla ricerca dei dispositivi di sicurezza, all’allestimento di un reparto Covid nel carcere milanese di San Vittore ad opera di Medici senza Frontiere. 
Per sopperire all’assenza dei colloqui, con alcune lentezze e fatiche è stato autorizzato l’ingresso in carcere di tablet e telefoni. Anche se con qualche lentezza, nei diversi luoghi di detenzione, grazie agli aiuti provenienti da diverse fonti, si è riusciti a dotare di dispositivi anche chi non aveva risorse proprie. Tanto c’è ancora da fare, ma da parte di tutti c’è la consapevolezza che questa conquista sarà da consolidare ad emergenza finita. Il sollievo di poter rivedere affetti lontani, a volte genitori anziani che mai si sarebbero potuti recare ai colloqui, altre volte moglie e figli contemporaneamente, certamente ha placato, anche se in minima parte, le ansie umanamente attivate dalla pandemia, e ha restituito, seppur solo in parte, la dignità di persona ai detenuti, con affetti e legami che possono costituire una risorsa verso il reinserimento sociale.
 
Confluenza di contraddizioni sociali
Con l’arrivo del decreto “Cura Italia” e delle disposizioni relative al carcere che esso contiene, per quanto insufficienti e piene di ostacoli (interessante il commento di Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza), si è finalmente, benché lentamente avviata la lotta al sovraffollamento, con il conseguente tentativo di tutela della salute. Nonostante non sia semplice, ci sia molto da chiarire e nessuna risorsa sia stata messa in campo per facilitare l’applicazione delle nuove disposizioni, lentamente i numeri delle presenze in carcere hanno iniziato ad abbassarsi.
Tali numeri dicono che, rispetto al picco di presenze nei penitenziari italiani (61.230), raggiunto lo scorso 29 febbraio (fonte: il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis), al 4 maggio le persone detenute e fisicamente presenti in carcere erano erano 53.139, mentre altre 806 erano in licenza, in permesso o in altre situazioni di non presenza in istituto. La detenzione domiciliare applicata dopo il 18 marzo riguardava invece 2.917 persone, 746 delle quali con il braccialetto elettronico (fonte: Garante nazionale dei detenuti).
Sempre secondo i calcoli del Garante, Mauro Palma, durante il mese di aprile «c’è stata una media giornaliera di ingressi dalla libertà di 58 persone. Parallelamente, si è avuta una media giornaliera di 72 scarcerazioni, 52 arresti domiciliari, 68 detenzioni domiciliari e 16 affidamenti in prova». Per avere un termine di raffronto, a gennaio la media giornaliera di ingressi dalla libertà era 130; quanto ai movimenti in uscita, si registravano 95 scarcerazioni, 32 arresti domiciliari, 10 detenzioni domiciliari e 9 affidamenti in prova.
Questi numeri fanno un po’ giustizia della diffusa opinione di molti, secondo cui la riduzione del numero di presenze è dovuta soltanto al minor numero di ingressi in carcere. L’incidenza delle uscite risulta evidente: per esempio si è passati da 10 detenzioni domiciliari (medie giornaliere a gennaio) a 68 ad aprile».
In un’intervista dell’8 maggio, sempre il Garante ha affrontato, tra l’altro, le polemiche relative alle “scarcerazioni” di persone aderenti alla criminalità organizzata: «Al 29 febbraio circa 2 mila persone detenute erano condannate a una pena inferiore a un anno, quindi non solo non hanno commesso grandi reati, ma potrebbero anche beneficiare di misure alternative al carcere di cui evidentemente non godono per problemi di natura diversa: sono, ad esempio, senza dimora, o stranieri, o persone prive di difesa. Ciò rivela come il carcere sia in realtà diventato il luogo dove vanno a confluire gli esiti di altre contraddizioni sociali, di altri fallimenti delle reti di sostegno. Sempre al 29 febbraio, nelle carceri italiane erano detenute circa 23 mila persone che, tra pena data o residuo di pena, dovevano scontare meno di 3 anni in carcere. Persone per cui forse sarebbe stato utile pensare a programmi alternativi».
 
Conquiste rispetto a cui non indietreggiare
Nelle carceri italiane, la pandemia non ha bloccato solo la presenza dei volontari e la possibilità di colloqui, ma ha anche ogni attività di socializzazione e re-inclusione, dai laboratori, alle attività scolastiche di ogni grado, alle varie forme di attività lavorative esterne, fino alla presenza di medici specialisti, ugualmente compromessa.
L’Italia ha avviato la fase 2. Ma per il carcere cosa significa e cosa comporterà? Sarebbe bello che la sofferta esperienza che stiamo attraversando portasse alla maturazione di un diverso paradigma, tramite il quale interpretare la realtà carceraria. Coloro che da tempo operano in questo ambito non smettono di sottolineare, anche e soprattutto in questa occasione, che il carcere deve costituire l’extrema ratio, che non giova a nessuno che il detenuto, scontata la pena, non riesca a integrarsi nella società, che non si chiedono sconti e che la certezza della pena va garantita, ma che ci sono modalità differenti alla mera detenzione tramite cui è possibile attuare questo imperativo. E sarebbe bello poter raccontare di sempre nuove esperienze di comunità territoriali che trovano occasioni e modi per sperimentare pratiche di giustizia riparativa, che rimettano al centro le persone e coinvolgano tutte le parti interessate (vittime, autori del danno, comunità) in percorsi mirati e approcci trasformativi e generativi, in grado di ritessere relazioni positive.
La strada è sicuramente ancora lunga, ma è necessario continuare a lavorare nel quotidiano e per piccoli passi. Non si può indietreggiare rispetto ad alcune conquiste: si deve procedere con la riattivazione dei percorsi scolastici e lavorativi, si devono continuare a predisporre situazioni e contesti che rendano fruibili le misure alternative (un primo passo sono stati i due bandi di Cassa Ammende e del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità, entrambi insufficienti in quanto a risorse messe in campo, peraltro in alcuni casi anche inutilizzati, ma pur sempre un primo passo da guardare con speranza). È necessario poi, più in generale, puntare a un impegno forte per l’istruzione, il lavoro, l’inclusione e la prevenzione, anche in carcere, esattamente come nel resto del paese.
 
Colloqui da riprendere, tecnologia da confermare
Ornella Favero (presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia, di cui Caritas Italiana è membro) con estrema chiarezza ha chiesto di recente che nelle carceri italiane, superata la fase acuta dell’emergenza, riprendano i colloqui con i familiari, che le tecnologie entrate in tempi di coronavirus rimangano, che si riconosca che le videoconferenze sono cibo per la mente, che si riapra alla presenza del volontariato, la quale significa riportare in carcere la funzione costituzionale della pena. È necessario anche riavviare i permessi premio, ovviamente nel rispetto della sicurezza sanitaria. È importante rendersi conto che il reinserimento lavorativo sarà ancora più complesso in una fase storica che sarà certamente segnata da una profonda crisi economica.
Certamente tanto c’è ancora da fare, in primo luogo per tutelare la salute di tutti i cittadini, nessuno escluso. E tanto c’è da fare nelle carceri, perché rispondano al dettato costituzionale. Tanto c’è da fare pure nei territori, affinché siano in grado di accogliere ogni individuo, riconoscendogli la dignità di persona e non confondendolo con il danno prodotto o con la sua colpa. Tanto c’è da fare perché in Italia ci si avvii verso azioni di prevenzione e si cominci a costruire un tessuto sociale dove ogni cittadino sia risorsa per tutti.
Nulla di tutto ciò si può fare da soli. Facciamo rete, e riconosciamo al Covid 19 il suo unico merito: aver reso tanto visibili le fragilità, anche quelle annidate tra le mura di un carcere, da non poter più procrastinare il dovere di affrontarle e superarle, nella costruzione di un benessere che non può che essere insieme collettivo e individuale.
 
Cinzia Neglia