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Livorno sapeva che bisogna fare in fretta   versione testuale
1 giugno 2020

L’esperienza dell’alluvione, due anni e mezzo fa, rivista oggi ha le sembianze di un duro tirocinio. Caritas Livorno l’aveva sperimentato sul campo, in quella occasione: le famiglie avevano bisogno di supporto in fretta. Come aiutarle efficacemente, senza rimandare a programmi a lunga scadenza?
Suor Raffaella Spezio, 45 anni e l’attivismo di una ventenne, è la direttrice della Caritas diocesana di Livorno. Racconta i mesi della clausura collettiva dovuta al coronavirus, ed evidenzia che – proprio in nome della lezione appresa con l’alluvione – la Caritas diocesana si è attivata con prontezza per stare vicino alle famiglie colpite dal Covid o con membri in quarantena, agli anziani che non potevano più uscire, alle persone senza dimora per cui i servizi tradizionali andavano adattati «anche con creatività». 
Così, da subito, Caritas Livorno ha potenziato il servizio dei pasti caldi a domicilio, la consegna della spesa, la preparazione di pacchi alimentari per le famiglie in difficoltà. Nonostante la carenza dei volontari “storici” (alcuni per una questione di età anagrafica, altri perché, impauriti dal virus, hanno ritirato la propria disponibilità), la solidarietà di tanti cittadini si è fatta viva in fretta, e ha reso possibile la mobilitazione rapida.

La donazione più bella
«Ci sono state associazioni che, avendo dovuto sospendere la loro usuale attività, si sono messe a disposizione della Caritas – conferma suor Raffaella –; penso ad esempio ai volontari che normalmente affiancano i malati di tumore, che non potevano più andare in ospedale e hanno donato il loro tempo per distribuire i pasti caldi a domicilio. O ancora La Misericordia, che fa servizio con le ambulanze: in un periodo in cui non ci sono stati incidenti, ha fatto servizio con noi».
Sono arrivate anche molte donazioni di prodotti alimentari da cittadini e aziende, che sono serviti a integrare i pacchi preparati per le famiglie in difficoltà economica. Ma la donazione più bella, probabilmente, è stata quella inaspettata, arrivata via mare, dalla Gorgona, un’isola al largo di Livorno che ospita il carcere della città, a cui la Caritas fa visita regolarmente una volta alla settimana. I detenuti, nell’ambito di un progetto sociale, lavorano la terra e allevano animali; così hanno deciso di donare i frutti della loro fatica a chi, in quel momento, stava peggio: ortaggi, formaggi fatti “in casa” e uova fresche sono arrivati al porto su un’imbarcazione della polizia penitenziaria. «Mi hanno avvisato il mattino stesso, sono andata al porto con la mia auto e, quando hanno sbarcato i prodotti, ho dovuto chiamare altri che venissero a caricare, perché la mia macchina non bastava. È stato un gesto davvero bello e generoso».
 
Economia del porto in declino
Ma quello che davvero ha fatto capire in fretta alla Caritas che la situazione sociale stava diventando pesante è stato il telefono. «Abbiamo attivato un servizio di ascolto telefonico. Ci sono arrivate richieste di tutti i tipi: da chi aveva bisogno di fare una chiacchierata perché immerso nella solitudine, a chi chiedeva informazioni su dove trovare mascherine e guanti, e questo ci ha permesso di stare vicini a molti, nonostante fossimo chiusi in casa – spiega suor Raffaella –. Ma soprattutto, la metà delle telefonate ricevute per una richiesta di aiuto economico proveniva da persone che non conoscevamo, che non avevano mai chiesto aiuto alla Caritas e che nella loro vita mai avrebbero pensato di doverlo fare».
Lo ha confessato in un gruppo whatsapp dei compagni di basket un padre di famiglia. Lui e la moglie sono stati messi entrambi in cassa integrazione, ma i soldi non sono arrivati in tempo per le spese della quotidianità: «Non pensavo mi sarebbe mai successo, oggi ho chiesto aiuto per un pacco viveri alla Caritas».
Livorno è una realtà legata all’economia del mare, da tempo in trasformazione. «È un che presentava già forti elementi di povertà, con nodi critici legati alla casa e al lavoro. Dal 2011 hanno chiuso tante aziende, tantissime persone si sono trovate senza lavoro, e anche l’attività del porto si è molto ridotta rispetto a un tempo». Stavolta chi è andato in crisi subito, con il lockdown, agiva nel settore della ristorazione: «Tante delle persone che ci hanno chiesto aiuto lo hanno fatto perché hanno perso il lavoro da barista, cameriere, cuoco... Già prima c’erano persone che non potevano permettersi di chiudere quindici giorni, altrimenti sarebbero saltati. Ora, lo sappiamo, molti bar e ristoranti non riapriranno più».
 
La missione di far divertire
Tra chi ha chiamato la Caritas ci sono stati anche musicisti, attori, persone che lavorano nel mondo dello spettacolo, le cui entrate dipendono dal titolo in cartellone al momento. «Chiedono un sostegno per l'affitto, per le bollette o per spese normali, come l’assicurazione della macchina». Spettacoli ed eventi si sono fermati anche per chi li fa girando da una città all’altra, giostrai e viandanti. «Si sono trovati bloccati, senza possibilità di fare incasso per la giornata. Noi siamo in contatto con la comunità che si è fermata qui, sono 52 persone italiane, 11 famiglie intere, con minori. Li abbiamo sostenuti soprattutto per la spesa e i pasti, con buoni spesa, un aiuto per le marche da bollo, cose così...».
Per suor Raffaella e i suoi collaboratori è stata l'occasione per entrare in un mondo che spesso ci passa accanto, ma che è raro conoscere da vicino. Ha passato con loro intere giornate e ha scoperto famiglie fortemente unite, abituate a vivere sempre insieme, a intrecciare saldamente vita, famiglia, lavoro: «È stato affascinante vedere il mondo attraverso i loro occhi. Sono famiglie molto solide e unite, molto protettive nei confronti dei figli, che si sentono chiamati per vocazione a far divertire la gente. Abituati a vivere tra giostre, musiche e colori, si sono dovuti inventare anche loro un modo di vivere stando fermi». A suor Raffaella hanno detto dove andranno, forse, quando ripartiranno. Le hanno detto: ti aspettiamo, vienici a trovare.
Suor Raffaella, intanto, resta a Livorno. «Abbiamo dovuto tranquillizzare e sostenere chi aveva paura. Ma poi dalla paura siamo passati alla responsabilità. Non potevamo chiudere: dobbiamo esserci sempre, e stare accanto».
 
Marta Zanella