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Fragile Piacenza, ma ha accelerato   versione testuale
5 giugno 2020

Abbiamo imparato presto che il Coronavirus non guarda in faccia a nessuno. Sebbene le conseguenze delle misure per fermare la sua corsa non siano state per tutti uguali, il contagio non fa distinguo. Colpisce ricchi e poveri. Tanto meno, non si fa scrupoli morali. Così, il 23 febbraio, pochi giorni dopo l’individuazione del primo focolaio in Italia, Mario Idda, 60 anni, diacono ed ex direttore tecnico, da appena un anno alla guida della Caritas diocesana di Piacenza-Bobbio, ha capito che qualcosa non andava. Tosse persistente, mal di gola, febbre sopra i 39° gradi. Sintomi inequivocabili, poi certificati dal tampone.
«Sono stati giorni molto difficili. In tv e sui giornali nessuno si azzardava più a dire che era poco più di una normale influenza e, al contrario, si iniziava a fare il conto delle vittime. Anche io ho temuto il peggio – confessa Idda –. La notte non riuscivo a prendere sonno. Nel frattempo sentivo il peso della responsabilità: bisognava pensare a chi non aveva una casa dove rifugiarsi, a chi si affidava a noi per il pranzo e per la cena. Come non abbandonarli al loro destino e al tempo stesso fare in modo che potessero essere aiutati senza che venisse messa a repentaglio la loro salute e quella dei volontari e degli operatori che li assistevano? Eppure, paradossalmente, ma forse nemmeno così tanto, proprio il pensiero per gli altri mi ha aiutato a ridimensionare l’ansia che provavo per me. Con l’aiuto di mia moglie, che mi è stata sempre accanto, e l’incoraggiamento degli amici e, voglio sottolinearlo, anche dei colleghi di Caritas Italiana con le loro telefonate quotidiane, ho superato quel senso di solitudine e di isolamento che mi opprimeva nei primi giorni. Proprio la loro vicinanza mi ha permesso di affrontare la malattia e nel frattempo di dedicarmi al lavoro».
Lavoro che è stato, per altro, molto impegnativo. In poche settimane, in piena emergenza, in una delle 5 province d’Italia più colpite dal virus, tutta la rete dei servizi essenziali è stata riorganizzata, per soddisfare due esigenze che apparentemente la pandemia metteva in contraddizione: la solidarietà, da una parte, e la sicurezza sanitaria, dall’altra. Per superare questo vero e proprio dilemma morale sono stati necessari molto sangue freddo, altruismo e collaborazione.
 
Mensa, docce e resilienza
Il primo capitolo da affrontare è stata la mensa. Troppo pericoloso ospitare 100 persone, tutte insieme, in una sola sala, due volte al giorno. Al tempo stesso non si poteva nemmeno abbassare la saracinesca. E così si è pensato di trasferire il servizio negli spazi più ampi del centro il “Samaritano”, che si trova davanti alla sede della Caritas diocesana. Ancora oggi, superata l’emergenza più acuta, i pasti completi, sia a pranzo che a cena, preparati da un’azienda di ristorazione cui è stato momentaneamente affidata la cucina, vengono consegnati direttamente nel cortile e sulle strada. Per facilitare ulteriormente il distanziamento sociale è stato anche allestito, a terra e sul marciapiede, un apposito percorso, dove gli utenti vengono indirizzati anche grazie al supporto degli agenti della Polizia locale e agli scout del gruppo Agesci cittadino. «In questo modo – dice soddisfatto Idda – non solo non abbiamo chiuso, ma siamo riusciti anche ad accogliere le nuove richieste che purtroppo la crisi sociale che è nata da quella sanitaria ha provocato. Attualmente usufruiscono delle mansa 150 persone e a mettersi in coda ci sono anche famiglie, non più soltanto single».
Altra questione di non facile approccio è stata quella relativa alle persone senza dimora. Come dare una casa a chi una casa non ce l’ha mai avuta? Ebbene anche in questo caso proprio l’emergenza ha fatto concretizzare possibilità insperate. Con qualche telefonata e la forza di persuasione di chi ha sempre operato in maniera disinteressata per la collettività sono stati trovati 12 appartamenti di proprietà delle parrocchie e di privati cittadini per accogliere a titolo gratuito i 18 ospiti dei due dormitori che erano stati chiusi per ragioni di sicurezza. Quando l’emergenza sarà finita, gli homeless verranno trasferiti in altri alloggi che da tempo si stavano approntando per superare il modello del dormitorio. Quasi un miracolo.
Infine, con pragmatismo emiliano, persino per le docce pubbliche – il servizio forse più delicato, in tempi di pandemia – si è trovata una soluzione: il numero di box è stato dimezzato, ma per garantire a tutti l’accesso l’apertura è stata estesa 7 giorni su 7
«Esiste una parola in psicologia che credo si adatti bene a quello che abbiamo vissuto. Questa parola – commenta Idda – è “resilienza”. Il Covid-19 ci ha fatto capire quanto siamo fragili, ma ci ha anche fatto scoprire risorse che non pensavamo di avere. In alcuni casi ci ha persino costretto ad accelerare progetti su cui stavano ragionando da tempo, come nel caso dell’accoglienza degli homeless. Ora dobbiamo fare tesoro di questa lezione anche per i mesi che verranno, che non saranno affatto facili»,.  
 
Francesco Chiavarini