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Ci serve una medicina di prossimità   versione testuale
20 giugno 2020

Don Massimo Angelelli da fine 2017 dirige l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Conferenza episcopale italiana. Dal suo osservatorio, il panorama del paese invaso dall’epidemia appare venato di indicazioni complesse. La sanità, ricca di competenze e forte dell’attitudine al servizio dei suoi operatori, deve però ripensarsi. Avvicinandosi ai territori, alle case, alle comunità.
 
L’Italia e il virus: dobbiamo vantarci del nostro sistema sanitario, che in qualche modo ha retto, nonostante l’enormità della sfida, o dobbiamo affliggerci per le tante magagne evidenziate dall’epidemia?
Come ogni realtà estremamente complessa, il nostro sistema sanitario ha lati positivi e negativi. Io credo che in questa esperienza siano stati di più i lati positivi; tra essi, annovero il fatto che si tratti di un servizio che mantiene la caratteristica dell’universalità, come è stabilito dalla Costituzione ed è stato sancito dalla legge del 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale. In Italia ancora tutti hanno accesso alle cure, chiunque sia presente nel nostro territorio, per qualsiasi ragione è e può essere curato. Ciò non significa ovviamente esprimere un giudizio totalmente positivo. Per esempio, la progressiva riduzione dei finanziamenti alla sanità pubblica e alla sanità privata convenzionata, verificatasi negli ultimi anni, ha comportato una restrizione dei posti letto e dei presidi ospedalieri, oltre a forme organizzative che non hanno retto al meglio alla prova del Covid-19. L’epicentro della pandemia si è verificato in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia: il sistema sanitario delle regioni del nord ha grosso modo retto l’impatto, perché c’erano strutture, presidi, personale, capacità di gestione. Ma non in tutte le regioni è così: dobbiamo ringraziare il buon Dio perché l’epidemia non è esplosa in tutte le regioni d'Italia con la stessa intensità, altrimenti il risultato sarebbe stato ben diverso. Quindi da un lato dobbiamo contemplare la bontà del sistema e la sua capacità di resilienza, d’altro canto renderci conto che tante cose non hanno funzionato a livello organizzativo: il numero fortemente ridotto dei presidi ospedalieri, la contrazione del personale, il numero chiuso delle borse specialistiche. Abbiamo bisogno di medici specialisti: in quest’ultima crisi non ne avevamo a sufficienza nelle discipline chiamate in causa, semplicemente perché da tempo abbiamo stabilito il numero chiuso degli studenti specializzandi. È uno degli elementi da rivedere. 
 
L’epidemia ha riportato al centro del dibattito pubblico il tema del diritto di tutti alla salute. Politica e opinione pubblica stanno facendo tesoro di questa pur tragica opportunità?
Voglio sperarlo. Tengo in sospeso la valutazione perché siamo ancora nell'ambito dell'esperienza pandemica, non ne siamo usciti. Per il momento la risposta probabilmente non è positiva, non riesco a vedere nell’immediato risorse e segni di inversione. Per esempio mi sarei aspettato un'apertura, per il prossimo anno accademico, riguardo alle borse degli specializzandi, o una revisione delle strategie di sviluppo del Servizio sanitario Nazionale, ma non ci sono chiari segni di riflessione in proposito. Speriamo che vengano nel medio periodo: c'è stata un’immissione importante di risorse economiche nel sistema, anche da parte di sorgenti esterne come l’Unione europea: speriamo siano davvero finalizzate a mantenere il diritto universale di accesso alle cure, nel rispetto della Costituzione. In proposito, aggiungo che non mi pare si sia colto appieno il ruolo sussidiario della sanità privata, quella integrata nel Sistema sanitario nazionale attraverso il meccanismo dell’accreditamento. Le strutture private accreditate (comprese quelle cattoliche) hanno contribuito al compito di cura nella fase dell’emergenza e hanno dato molto sul fronte del supporto alle strutture pubbliche, ma non mi pare che tale apporto sia stato valutato in maniera adeguata.
 
Medici e infermieri, i nuovi eroi. Definizione che discende da una genuina gratitudine di popolo, o dettata da eccessi retorici e mediatici, magari per sviare il dibattito sulle falle del sistema?
La definizione è emozionale, perché a fronte della paura dell’evento pandemico abbiamo riconosciuto in queste persone professionisti capaci di grande sacrificio. Ma tutto il sistema sanitario rifugge dalla logica e dalla retorica degli eroi. I sanitari, gli infermieri, i curanti hanno fatto bene il loro mestiere, con grande professionalità, con un sacrificio enorme, ben oltre le logiche strettamente contrattuali o retributive. Hanno speso la loro vita con grande sacrificio a tutela degli altri e a cura degli altri: come fanno sempre. Quello che hanno fatto nel periodo pandemico lo fanno sempre, anche se in condizioni meno drammatiche, rinunciando a stare con la propria famiglia, a riposare, a poter gestire in tranquillità le proprie paure. Purtroppo oggi la dimensione emozionale con cui il popolo italiano ha ringraziato e ha riconosciuto il ruolo fondamentale di questi professionisti sta già scemando; siamo tornati di nuovo all'aggressione nei pronto soccorso, a dimenticarci che nel momento del bisogno queste persone hanno dato tutto, sacrificando sé stessi. Che poi, in una prospettiva da credenti, è quello che chiede il Vangelo. Gli operatori della sanità sono un'incarnazione vera, concreta, attuale di quanto chiede il Vangelo: ma lo sono sempre.
 
Ospedalizzazione delle cure, o valorizzazione della medicina territoriale e dell’assistenza domiciliare: l’epidemia ha svelato che i nostri sistemi sanitari non sempre si reggono su un convincente equilibrio tra i due approcci. Possiamo prevedere cambiamenti, culturali ancor prima che organizzativi, o tutto tornerà come prima? 
Il cambiamento si è imposto da sé, senza che noi ne fossimo pienamente coscienti, nel senso che l’urgenza pandemica ha di fatto modificato i sistemi di cura e adesso dobbiamo essere capaci di rincorrere quello che abbiamo imparato sul campo, per renderlo istituzionale. La centralità della struttura ospedaliera e della libera specializzazione funziona in condizioni di acuzie, quando c'è la patologia specifica che deve essere trattata in un contesto altamente specializzato. Ma la cura, intesa in un senso più ampio e precedente, che contempla anche la prevenzione delle malattie, il monitoraggio generale della salute della popolazione tramite screening di controllo e le cure intermedie, deve essere fatta nel territorio, nella maniera più prossima alle persone. Presso l’Ufficio nazionale della Cei esiste una Consulta per i servizi sanitari di prossimità: da oltre due anni stiamo lavorando a un modello di sanità territoriale che torni a fianco alle famiglie, e che in maniera particolare stia vicino a coloro che non possono accedere all'ospedale. Una sanità di prossimità, che conosce il territorio ed è più proattiva nei confronti dei soggetti destinatari, è una sanità che si prende cura di tutti: da queste convinzioni è nato il progetto dell'“infermiere di comunità”, cogestito dalle parrocchie con le Asl in 5 contesti territoriali del paese (Alba, Reggio Emilia, Porto Santa Rufina, Roma e Tricarico), e che nel 2021 potrebbe estendersi a diversi altre zone d’Italia. L’ente sanitario invia un infermiere in un gruppo determinato di parrocchie per ascoltare i bisogni del territorio. Costui rappresenta un elemento di incontro (un “punto infosalute”, l'abbiamo chiamato), per far incontrare la domanda di salute e l'offerta pubblica. La parrocchia così diventa luogo d'incontro anche per i bisogni della salute: ministri straordinari dell’eucaristia, volontari, movimenti e associazioni possono far emergere una serie di bisogni, che altrimenti non verrebbero intercettati dalle Asl, quindi dal sistema sanitario.
 
I servizi e i centri di cura di matrice cristiana: che ruolo hanno avuto durante l’epidemia? E che ruolo dovranno giocare nell’evoluzione del sistema sanitario?
I sistemi sanitari privati funzionano con un meccanismo di accreditamento, quindi appartengono a tutti gli effetti alla rete di cura pubblica che lo Stato predispone. Di conseguenza sono stati al servizio delle singole regioni là dove sono stati coinvolti: in alcuni casi lo sono stati molto e hanno svolto un servizio di supporto rilevante, anche perché le regioni hanno chiesto di rivedere l’organizzazione e sospendere l'attività ordinaria, per disporsi a combattere le emergenze in una rete fortemente integrata. Per il futuro dobbiamo sperare e immaginare una nuova configurazione del Servizio sanitario nazionale, in cui venga riconosciuto il ruolo delle strutture sanitarie che operano secondo una logica non profit. È importante sottolinearlo: all'interno del sistema privato, convenzionato o non convenzionato, sono presenti in maniera egualitaria sia coloro che agiscono con una finalità profit, sia quelli che operano con una finalità non profit. Questo sarà un elemento di attenzione e riflessione anche per l’Ufficio nazionale di pastorale della salute.
 
La cura dei più fragili, cronici, soli: cosa abbiamo imparato da un’esperienza terribile, in cui spesso si è avuta l’impressione che i più anziani fossero “sacrificabili”?
È un tema forte. In qualche nazione europea l’hanno detto in maniera esplicita, che gli anziani più fragili erano in qualche modo sacrificabili; addirittura in alcune nazioni del nord Europa sono state emesse direttive di gestione in questo senso. Noi non solo non possiamo accettare questa realtà, ma siamo convinti che il barometro della nostra civiltà si tari sulla capacità di non lasciare indietro nessuno, di non lasciare solo nessuno. Gli anziani e tutti coloro che hanno vissuto in solitudine l'esperienza pandemica non sono la cifra degli scarti, della “cultura dello scarto”, come la chiama papa Francesco, ma sono i primi soggetti da reinserire e mantenere in maniera forte all'interno della rete sociale e comunitaria. In questo la sanità cattolica svolge un ruolo fondamentale, là dove cerca, per quanto possibile, di non lasciare solo nessuno. Ho paura dell’affacciarsi di un certo pensiero: se noi riduciamo tutto a una valutazione economica, allora veramente ci degradiamo, in termini di umanità e di civiltà.
 
Il Papa, in Quaresima, ci ha ricordato, rileggendo la pagina evangelica della barca degli apostoli scossa dalla tempesta, che nessuno si salva da solo. Cosa devono fare le pastorali della Chiesa italiana, per dare concretezza a questa indicazione?
Considero la parrocchia ancora l'unità di base della comunità cristiana: al di là delle specifiche competenze che può ogni singola azione pastorale, o ci riconosciamo tutti come comunità capace di grande solidarietà, o è difficile potersi definire cristiani. Non si tratta di professionalizzare le pastorali per raggiungere obiettivi migliori, si tratta di ricostituirsi come comunità, per far emergere all'interno delle comunità ogni fragilità. Una comunità cristiana si distingue in virtù della sua capacità di conoscere il territorio, le persone, le storie, e di saper lavorare in sinergia per il bene di ciascuno. È il profilo di una “comunità sanante”, capace di farsi carico delle ferite presenti al suo interno e di affrontarle e accompagnarle. Le diverse pastorali sono chiamate a lavorare insieme, come accenti di un unico progetto e di un'unica visione. Se la comunità si costituisce sulla base di un'attenzione effettiva gli uni per gli altri, risponde al dettato evangelico “Amatevi gli uni gli altri”: nulla di più, nulla di meno che la dimensione costitutiva della vita e della comunità cristiana.
 
Paolo Brivio