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Nessuno sia escluso dalla proposta di fede   versione testuale
25 giugno 2020

Don Valentino Bulgarelli, dal suo osservatorio di direttore dell’Ufficio catechistico nazionale, ritiene che la pandemia costituisca una sfida alla catechesi? Con la sua portata universale e il suo carico di lutti, paure e disperazione, è un fenomeno che può mettere in crisi la trasmissione della fede? Oppure se ne può trarre qualche elemento di incoraggiamento?
La situazione straordinaria che abbiamo vissuto porta in dote, come tutte le crisi, aspetti positivi e aspetti negativi. Quanto ai secondi, sono emerse alcune fatiche legate a canali di trasmissione della fede che forse erroneamente pensavamo consolidati, o comunque stabili. Penso per esempio alla questione del linguaggio della catechesi, del nostro modo di parlare, di proporre il Vangelo. Dunque qualcosa di molto profondo. Rileverei, però, incoraggianti aspetti di reazione positiva. Come la grande forza mostrata dai catechisti, che hanno cercato di conservare le relazioni che faticosamente, all’interno dei contesti ecclesiali, si cercano di costruire nel quotidiano, tramite le classiche esperienze tradizionali: l’iniziazione cristiana, la catechesi per gli adulti, o altri percorsi. In generale, credo che questo momento di crisi può davvero rappresentare una sfida, sollecitandoci a imparare a leggere meglio la realtà, soprattutto il quotidiano. Mai come oggi, appare attuale l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium di papa Francesco, che chiede la capacità di dire il Vangelo con una grande attenzione alla vita reale delle persone, al quotidiano. La pandemia di fatto ha riconfigurato gli spazi del quotidiano. Basta considerare quello che è accaduto ai contesti domestici e familiari. Il nucleo familiare era abituato a ritmi e modalità organizzative e relazionali centrati sul fatto che i diversi componenti della famiglia trascorrevano fuori casa gran parte della loro giornata: l’essere stati costretti a vivere in uno spazio chiuso, tutti insieme, una quotidianità senza uscite, ha sicuramente cambiato molte dinamiche relazionali e molte convinzioni. Dal punto di vista di chi trasmette la fede, ciò apre una vera e propria stagione di riflessione, di discernimento e di ricerca. Anche di cambiamento.
 
“A distanza”: ogni relazione, comprese quelle educative, in questa fase storica deve soggiacere a questa condizione. Ma è possibile fare catechesi a distanza?
La risposta è necessariamente ambivalente. Ancora una volta, dobbiamo cogliere il positivo, ma anche i limiti di alcune situazioni. Il mondo dei social, dei new media, dell’on line, dobbiamo riconoscerlo con onestà, comunque ha garantito un contatto che ha funzionato bene; se c'erano relazioni già esistenti, le ha comunque consolidate, ha permesso il vedersi e il frequentarsi. Dall'altra parte, non funziona senza relazioni preesistenti. Dunque, fare catechesi a distanza è possibile. Ma anche no. Se gli strumenti aiutano il raggiungimento del fine (nel caso della catechesi, crescere nell'incontro personale e comunitario con Cristo, che cammina con noi), allora sono convincenti. ma possono anche fallire.
Quello che a me crea difficoltà, è che purtroppo l’utilizzo dell'on line non è di tutti, non è per tutti. Tocchiamo con mano un problema strutturale dell'Italia, relativo all’efficacia e alla capillarità dell’infrastruttura per il digitale. Non tutte le famiglie possono permettersi un computer o una connessione: dobbiamo stare molto attenti a non perdere di vista quel 20%, 30% di persone che non può connettersi facilmente, per tanti motivi. Guardando al futuro, mi sia dunque consentita un'immagine biblica: Gesù che moltiplica i pani, secondo la narrazione dei Vangeli. A un certo punto Gesù li fece sedere “per piccoli gruppi”: la situazione odierna esige da noi un vero cambio di mentalità, perché l’organizzazione favorisca le relazioni nella sicurezza. Ci è chiesta un’organizzazione diversa della prospettiva comunitaria: la mia vera preoccupazione è che nessuno venga escluso dalla proposta di fede, di educazione. Anche di educazione scolastica. Perché altrimenti si generano nuove povertà.
 
La preparazione (e la partecipazione) ai sacramenti: ipotizzando una durata non breve delle attuali misure di prevenzione e sicurezza, si deve immaginare una stagione di “sospensione sacramentale”?
Credo che passeremo l’estate, noi comunità cristiane e chiese locali, a valutare queste prospettive. Io ritengo sia importante considerare la dimensione dei sacramenti come sempre e comunque legata a una dimensione comunitaria. Il valore dell'assemblea e della comunità cristiana è uno dei grandi insegnamenti del Concilio Vaticano II: capisco il desiderio e la fretta di celebrare i sacramenti, ma proprio per accompagnare la persona nella sua crescita personale, occorre prevedere una crescita comunitaria, cioè dell’intera comunità che accompagna i cammini di fede. Pertanto credo si dovrà andare alla ricerca di un nuovo equilibrio. Tutto il mondo della catechesi, compreso naturalmente anche l’Ufficio catechistico Nazionale, si sta muovendo in questa direzione. Stiamo cioè cercando in modo sinergico e condiviso, con una logica sinodale, di riuscire a darci linee comuni, perché la dimensione personale non vada a discapito della dimensione comunitaria. È un cammino nuovo, difficile; servirà ancora qualche mese per intuire la strada giusta. Anche tenendo conto delle regole e delle indicazioni che proverranno dalle autorità civili del paese.
 
Una catechesi del dolore e della morte erano probabilmente già difficili prima dell’epidemia. Dopo la gestione dei defunti come ammassi di bare, dopo la costrizione subita da molti a morire soli, come tornare a suggerire e raccontare un senso cristiano del morire?
Anche qui mi riconnetto a quella che è la tradizione della Chiesa, che ci ricorda che il centro dell'esperienza di fede dell'anno liturgico e il fondamento dell'atto di fede personale e comunitario è comunque sempre il triduo pasquale, cioè la passione morte e risurrezione di Cristo. Io credo anzitutto che sia importante non sottrarsi alle domande non solo dell'uomo e della donna credenti, ma anche dell'uomo e della donna non credenti, le domande che ogni persona si porta appresso: sul dolore, sul perché del dolore, sull’invincibilità del dolore. Affrontando queste domande, è possibile proporre la buona notizia cristiana, secondo la quale il Dio nel quale crediamo ha attraversato ogni passaggio dell’esperienza umana, dolore compreso, morte compresa. Fino allo scenario della Risurrezione. Ascoltare le domande e accompagnare il dolore: intuizione profondamente radicata nel Concilio Vaticano II e nella sua Costituzione pastorale Gaudium et Spes. Non c'è nulla di genuinamente umano, che non trovi eco nel cuore dei discepoli. Io ho vissuto la stagione dell’epidemia davvero come un invito a riportare al centro il Vangelo, cioè la buona notizia che dà la possibilità all'umano anzitutto di trovare un orizzonte, e anche credo quella necessaria consolazione di cui tutti avvertiamo la necessità.
 
La carità: la Chiesa e le sue tante espressioni, anche in questo frangente, hanno dato prova di saper testimoniare con i fatti i valori evangelici della condivisione e della premura per gli ultimi, i piccoli, i malati. Come può la catechesi sostenere questo slancio, per evitare che tramonti per stanchezza?
Già Paolo VI diceva che il mondo di oggi ha bisogno di testimoni, più che di maestri. I gesti di carità anche piccoli, anche nascosti, e ne abbiamo visti tanti in questo periodo, sono gesti di catechesi concreta, che fanno della fede un’esperienza di amore concreto e vissuto. Non dobbiamo mai scordare che la carità non deve essere solo qualcosa di eroico, di legato a una stagione di emergenza, ma è la capacità di vivere l'amore di Cristo nella quotidianità e nella concretezza. La catechesi ha bisogno di fare eco a questi gesti di carità, mai come oggi proprio perché il testimone di carità e i suoi gesti parlano molto più di tante parole. Peraltro, la dimensione educativa della fede oggi non passa più solo attraverso le parole e la razionalità, ma anche attraverso la capacità di parlare agli affetti, alle emozioni, a quel ricco mondo interiore che è la dimensione più preziosa di ogni persona. Sono convinto che i gesti di carità possono davvero essere una catechesi molto più feconda di tante parole.
 
Cosa direbbe un buon catechista a un bambino piccolo, o a un ragazzino, per spiegare il senso cristiano di tutto quanto è accaduto e sta accadendo?
Bella domanda... Anzitutto io sarei per fare emergere il protagonismo dei bambini; a volte noi pensiamo di dover dare loro il senso di quello che sta succedendo, invece io partirei chiedendo loro come stanno vivendo questa situazione. Credo che sarebbero capaci di risposte straordinarie, a partire dalle quali il buon catechista può avere la capacità di far comprendere che Gesù non ci ha abbandonato, ma con noi vive questa situazione. Tenterei di ascoltare che cosa ha significato per i bambini e i ragazzi la privazione, per esempio, dell’incontro con i loro amici, i loro compagni di scuola, i loro maestri, o l’avere papà e mamma di fianco per 24 ore consecutive, o l’assenza di spazi aperti per il gioco libero. Sarebbe interessantissimo anche capire che cosa significa per loro quel metro che hanno a disposizione, che cosa c’è dentro a quel metro…
 
Come affinare e rafforzare l’azione integrata tra pastorali, per ricordare che, come i pescatori del Vangelo scossi dalla tempesta sulla barca, ci salviamo solo tutti insieme?
Noi veniamo da una stagione in cui probabilmente siamo stati e ci siamo abituati a generare tanti spazi autonomi, molte volte isolati, tanti cortili che non comunicavano tra loro. Oggi però credo non sia più possibile uno scenario di questo tipo, non solo per motivazioni teologiche ed ecclesiali, ma credo proprio per il rispetto delle persone che incontriamo, che hanno dinamiche e passaggi di vita complessi e impegnativi. Il rischio di generare messaggi contraddittori, rivolti a loro, pur tutti ispirati al Vangelo, secondo me è molto evidente. Credo dunque ci sia bisogno di rivisitare il nostro modo di fare e di vivere la pastorale: al centro dobbiamo rimettere la persona, con le sue istanze, le sue situazioni, le sue relazioni, la sua complessità, che però richiede unità.
 
Paolo Brivio