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Dobbiamo ripensare la fratellanza   versione testuale
29 giugno 2020

L’intensificazione dell’aiuto ai paesi poveri. I quali, anche se meno afflitti sul versante sanitario, risentono però pesantemente degli effetti socio-economici delle chiusure e delle restrizioni imposte dall’epidemia. E la nuova consapevolezza dei paesi ricchi, che per una volta si sono trovati nelle vesti di chi doveva chiedere aiuto. Don Leonardo Di Mauro, responsabile del Servizio interventi caritativi a favore dei paesi del Terzo mondo della Conferenza episcopale italiana, ragiona sui nuovi scenari imposti dalla pandemia. Drammatici, ma forieri di rinnovamento.
 
La pandemia, fenomeno per definizione globale. Ma con un impatto non egualmente rilevante nelle singole aree del pianeta. Dalle notizie che avete, ci sono paesi in cui si possono temere effetti sociali, oltre che sanitari, più devastanti?
Se ne parla forse troppo poco, ma una situazione particolarmente preoccupante è quella vissuta dai popoli dell'Amazzonia, nel nord del Brasile, in Perù, in Ecuador, da dove arrivano notizie veramente molto gravi. Io sono reduce da una visita, a gennaio, proprio nel nord del Brasile; ascoltando le notizie mi vengono in mente le persone che ho conosciuto e con cui sono in contatto. Proprio loro ci confermano che c’è un’inadeguatezza strutturale del sistema sanitario. E c'è anche una situazione geografica specifica, caratterizzata da distanze e mezzi di comunicazione particolari: le strade sono i fiumi, da alcune località per raggiungere l’ospedale si deve navigare per giorni...
 
L’Amazzonia è uno dei tanti luoghi in cui opera il Servizio che lei dirige. Quali sono i criteri d’azione, in questo tempo di pandemia?
Il Servizio per gli interventi caritativi a favore dei paesi del terzo mondo della Conferenza episcopale italiana serve più di 100 paesi, tutti naturalmente poveri. Anche in occasione dell’emergenza Covid ci siamo inizialmente concentrati sull’Africa, ma senza dimenticare altre regioni del pianeta; siamo riusciti a raggiungere 65 paesi con 541 progetti, nemmeno tanto “micro”… Abbiamo raccolto, attraverso una dichiarazione di disponibilità, 700 domande, delle quali appunto 541 finanziate. Quando abbiamo rilevato che non era l’Africa l’area più colpita, abbiamo introdotto il doppio criterio secondo cui i finanziamenti devono raggiungere un po’ tutti i paesi poveri interessati dalla pandemia, inclusi quelli più isolati e periferici, e i servizi fruiti da un alto numero di persone. Abbiamo messo a disposizione fino a 15 mila euro per ogni ospedale che avesse fino a 100 posti letto e fino a 30 mila per gli ospedali con più di 100 posti letto, in modo che potessero dotarsi di dispositivi di protezione e di strumenti base per far fronte all’epidemia. Inoltre, abbiamo anche sostenuto progetti formativi (per un valore massimo di 10 mila euro ciascuno) che riguardino sia il personale sanitario, sia la popolazione da sensibilizzare a comportamenti corretti. Abbiamo potuto finanziare 381 progetti formativi, per 1,5 milioni circa, il 50% in Africa, il 20% sia in America Latina che in Asia, il 10% tra Europa dell’est e paesi del Medio Oriente. Aggiunti ai 7,5 milioni di euro, fanno 9 milioni di impegni: tutto è stato destinato a chi soffre per causa della pandemia. 
 
Fenomeno globale, si diceva: ma vede prevalere atteggiamenti di risposta ispirati a una solidarietà universale, o una serie di egoismi nazionali, al limite confliggenti?
Io sono fiducioso. Purtroppo ultimamente, e ben prima della pandemia, certi ritornelli, per esempio “Prima gli italiani”, hanno tormentato le nostre orecchie. Credo però che l’esperienza forte che abbiamo vissuto possa aiutarci a fare un cambiamento. Almeno, lo spero… anche se ho sperato molte cose in più durante il periodo della quarantena, per esempio che anche in politica prevalessero discorsi più unitari, più fraterni. Invece siamo tornati o stiamo tornando ad atteggiamenti di divisione e di sterile polemica. Per fortuna il Papa ci ha dato l’esempio, con le sue parole e con i suoi gesti. Dobbiamo imparare a pensare un po’ più in grande, e a mirare a una solidarietà mondiale più grande, a una nuova forma di economia, a un nuovo modo di pensare il mondo e la fratellanza, anche se i segnali non vanno in questa direzione. I soggetti della solidarietà e della cooperazione, in questo senso, hanno un importante ruolo culturale, oltre che operativo e attuativo. Possono e devono “contagiare” anche l’operato dei grandi organismi e la mentalità delle opinioni pubbliche.
Tra Chiese c'era stato un bel gesto anche prima della pandemia, ovvero l’Incontro del Mediterraneo, voluto a Bari dalla Conferenza episcopale, che ha fatto incontrare per la prima volta tutte le Chiese cristiane che si affacciano sul Mare nostrum. Spero che si possa andare sempre più nella direzione dell’incontro, che produce decisioni, aperture, cammini nuovi. 
 
Nella fase dell’emergenza si è manifestata una nuova grande risposta solidale (con annesse donazioni) del popolo italiano. Teme riflessi negativi sulla solidarietà e sulle donazioni ordinarie verso i paesi poveri?
I progetti che finanziamo in tutte le regioni del mondo sono un’attività che continuerà, ma forse ci caratterizzerà in maniera un po' diversa. Dopo questa esperienza tanti progetti saranno orientati alla ripresa, perché tanti paesi del mondo povero in cui noi operiamo magari non sono stati colpiti fortemente come altri dal coronavirus, ma sicuramente tutti dalle gravissime conseguenze economiche dei lockdown. Quindi ci prepariamo a considerare e a finanziare progetti che abbiano un indirizzo maggiormente promozionale, rivolti ai giovani, ai soggetti con capacità di intrapresa.
 
La crisi cambierà gli schemi della cooperazione? Cosa insegnerà ai popoli e alle Chiese dei paesi ricchi, che normalmente si trovano dalla parte dei donatori, e questa volta hanno sperimentato la condizione del dover chiedere aiuto?
Spero che insegni a creare sempre più rapporti alla pari, a non considerarsi come quelli che sono al sicuro e che dall'alto della loro sicurezza fanno cadere qualche monetina nel basso di chi è sempre in una situazione di inferiorità. Spero che avendo sperimentato il fatto di essere tutti nella stessa barca – anche se c'è chi viaggia in prima classe e chi è nelle stive –, si capisca che se la barca affonda affondiamo tutti, e se invece naviga navighiamo tutti. Spero in definitiva che tutta questa dolorosa situazione ci insegni a considerare l’altro sempre più alla pari, che ci faccia ricordare che facilmente le parti si possono invertire. Qualche ragionamento in questo senso si è avvertito anche da parte di persone impegnate in politica, forse qualcuno ha capito che se l’Africa sta meglio, stiamo meglio anche noi. Se stanno meglio i più poveri, stiamo meglio tutti. Abbiamo bisogno gli uni degli altri, perché siamo tutti connessi, come insegna papa Francesco nell’encicilica Laudato si’. 
 
Come possono le diverse pastorali rafforzare la loro azione comune, per testimoniare al popolo cristiano e alla comunità civile che – appunto – non ci si salva da soli, che la salvezza è solo collettiva?
Possono cominciare a lavorare insieme e a farlo sempre più ponendosi obiettivi comuni. L’esempio lo abbiamo proprio da questa emergenza Covid: i 9 milioni resi disponibili dalla Conferenza episcopale, che sono stati indirizzati a 75 paesi poveri, il Servizio interventi caritativi a favore dei paesi del Terzo mondo li ha gestiti insieme a Caritas Italiana: due realtà Cei hanno lavorato insieme per due mesi, da quando abbiamo avuto l’idea fino alla data di valuta dei pagamenti, lo scorso 25 maggio. È stato un lavoro intenso, molto impegnativo, ma che ha raggiunto il suo scopo. Un altro esempio è il Tavolo migrazioni, che vede ormai da 3 anni cinque uffici della Cei (oltre al Servizio interventi caritativi e a Caritas Italiana, anche Migrantes, Apostolato del mare e Missio)lavorare insieme, e dal quale è nata la campagna “Liberi di partire, liberi di restare”, la quale ha aiutato e sta ancora aiutando, attraverso uno stanziamento di 30 milioni da parte della Cei, a elaborare uno sguardo a 360 gradi sulla realtà delle migrazioni, con progetti rivolti in modo particolare ai minori non accompagnati e alle situazioni più vulnerabili, finanziato nei paesi di partenza, transito e approdo dei migranti. Lavorare insieme, non operare più a compartimenti stagni, sia pur non tralasciando le specificità, credo che si possa fare di più. E si possa dare una nuova impostazione all’apostolato.
 
Paolo Brivio