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Iraq, matrioska dei dolori   versione testuale
13 agosto 2020

L’Iraq è un sistema di scatole cinesi, una sorta di matrioska di sventure costituitasi nel tempo: i vari contenitori di crisi si sono susseguiti e si susseguono contenendosi progressivamente, e mantenendo invariato un contenuto fatto della stessa sostanza di dolore.
C’è la crisi dettata da 40 anni di guerre a intermittenza, legata direttamente a una crisi del sistema politico iracheno, tant’è che difficile stabilire i reciproci rapporti causa-effetto. In sostanza, definire i confini di dove inizi l’una e finisca l’altra. Ma è proprio contro la crisi del sistema politico che, dall’ottobre dello scorso anno, migliaia di persone sono scese in piazza, prendendo di mira tutte le colpe e le manchevolezze del governo: corruzione, disoccupazione, assenza di servizi rappresentano nel paese un serpente che si morde la coda, un uroboro senza soluzione di continuità.
 
Ha rallentato le proteste
A queste crisi strutturali e, per così dire, istituzionali, si è aggiunta negli ultimi mesi la crisi dettata dal Coronavirus, la cui diffusione ha generato un vulnus dentro la crisi appena descritta, mettendo a nudo le debolezze della politica e di una società fatta di diseguaglianze, in Iraq come nel resto del mondo. Non è difficile immaginare come il lockdown abbia impattato e stia generando un impatto violento in una società già indebolita. Un problema comune a molti altri paesi impoveriti del così detto “sud del mondo”, spesso colpiti dal virus sul piano sociale, più che su quello sanitario.
Altra crisi è quella generata dal terrorismo, rappresentato nei primi anni del Duemila dai jihadisti di Al-Qa’ida in Iraq (Aqi), il gruppo terroristico nato nel 2004 per combattere l’occupazione statunitense e il governo iracheno sostenuto dagli Usa dopo il rovesciamento di Saddam Hussein. Dalla dissoluzione dell’Aqi prese le mosse lo Stato Islamico, che in Iraq fu responsabile nel 2014 della presa di Mosul e della Piana di Ninive, liberata definitivamente dal nefasto dominio degli uomini neri del califfato solo tre anni dopo. In quell’arco di tempo, si calcola che all’apice del conflitto furono 6 milioni gli sfollati interni, che attualmente si sono ridimensionati ma rimangono un numero considerevole (1,6 milioni di persone), dato che colloca l’Iraq al nono posto nella classifica mondiale per sfollati interni (Idp, Internally displaced person) causati da conflitti e guerre. Si tratta di persone che hanno paura a tornare nelle loro case, se ancora esistono, persone che a fatica immaginano un futuro felice.
In questo contesto di labilità stabile, le sacche terroristiche dell’Isis ancora attive si impegnano attraverso atti terroristici e incendi di terreni agricoli per scoraggiare i ritorni della popolazione locale originaria. Perché nel caos, nella mancanza di un tessuto sociale coeso, prolifera con facilità il male dell’estremismo.
In aggiunta alle violenze del terrorismo, la diffusa insicurezza nel paese iracheno trova nutrimento anche in altri fattori. Anzitutto nel conflitto settario a bassa intensità, che vede contrapposte milizie sciite e sunnite. E poi nelle mai sopite tensioni fra lo stato autonomo del Kurdistan iracheno e le autorità di Baghdad. Il conseguente senso di frustrazione e sfiducia nelle istituzioni politiche, da parte degli iracheni, è benzina che alimenta il fuoco delle proteste di piazza, che da ottobre chiedono a gran voce la cancellazione del sistema governativo fondato sul confessionalismo, il quale rappresenta il “peccato originale” della radicata corruzione della casta politica.
Se l’epidemia di Covid 19 che è in corso ha rallentato le manifestazioni, esse tuttavia non si sono mai interrotte, e i presidi nella capitale, a piazza Tahrir e nelle città meridionali, continuano a manifestare il malcontento di un intero popolo. La repressione da parte delle forze di polizia è stata nel corso dei mesi durissima: da ottobre 2019 a oggi si contano più di 550 manifestanti uccisi e oltre 9mila feriti.
 
Nuova condizione d’esodo
Il quadro finora descritto non pare certo favorire la ricomposizione del paese, soprattutto il superamento di quello che continua probabilmente a costituire il principale problema sociale del paese, ovvero la condizione di sfollati interni dei centinaia di migliaia di persone (rispetto alla condizione dei quali, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, Caritas Italiana a giugno ha pubblicato il dossier specifico Sfollati. Uomini, donne e bambini, profughi nel loro paese, all’interno di una sezione dedicata all’impegno Caritas a favore dell’Iraq, ndr).
I “ritorni sostenibili” dei tanti che, negli anni del conflitto interno e della follia terrorista, hanno dovuto abbandonare la propria terra e la propria abitazione, sono ulteriormente complicati dalla chiusura, decisa dal governo di Baghdad, di numerosi campi profughi. Tale scelta si colloca nella linea politica del governo iracheno, impegnato a far tornare, entro il 2020, tutti gli sfollati presso le loro terre di origine. Tuttavia lo smantellamento dei campi di accoglienza lascia gli sfollati in una situazione d’incertezza ancora maggiore, che spesso sfocia in una nuova condizione di sfollamento.
Secondo i dati raccolti dall’Idmc (Internal Displacement Monitoring Centre), centro di ricerca situato a Ginevra che analizza le migrazioni dovute a conflitti e disastri all’interno dei singoli paesi, delle 462 mila persone che nel 2019 hanno scelto di rientrare nelle proprie case, 456 mila vivono in una condizione di sicurezza parziale; le restanti 6 mila, nonostante gli sforzi messi in atto per ricominciare una vita dignitosa, sono nuovamente ricadute nella condizione di sfollati.
Recentemente l’Iom (Organizzazione internazionale delle migrazioni) ha sviluppato un “indice dei ritorni” relativo all’Iraq, una scala che aiuta a comprendere le priorità ma anche gli ostacoli che le persone sfollate devono affrontare e valutare nella decisione di ritornare presso la propria terra. Sempre nell’indice vengono classificate anche le varie zone irachene in base agli investimenti necessari per renderle nuovamente vivibili. Ne emerge che la distruzione delle case è il principale ostacolo a riprendere la vita, lì dove è stata abbandonata. Infatti quelle aree dove almeno la metà delle abitazioni sono state distrutte, hanno una probabilità 15 volte inferiore rispetto ad altri territori, in cui l’alloggio è rimasto relativamente intatto, di consentire rientri coronati da successo.
 
Bonifica, assistenza, ricongiungimento
La disoccupazione rappresenta un altro importante fattore di valutazione. Le famiglie sono 10 volte meno propense a tornare nelle terre dove i residenti faticano a trovare un lavoro in paragone con quei luoghi, città, paesi dove invece si registra un buon tasso di occupazione. Altro significativo ostacolo è dato, comprensibilmente, dalla presenza di gruppi armati, fautori di continue violenze che scoraggiano i ritorni degli abitanti originari.
Nel febbraio 2018 il governo iracheno ha lanciato un “Programma di recupero e resilienza”, supportato dall’Onu, che ha contribuito ad accelerare gli sforzi per indirizzare la ricostruzione e creare le condizioni necessarie per promuovere ritorni volontari, dignitosi e sicuri. Il programma comprendeva la bonifica dei territori dagli ordigni inesplosi, la fornitura di assistenza legale agli sfollati interni e il rafforzamento della capacità degli istituti responsabili della documentazione, del risarcimento, della restituzione delle proprietà e del ricongiungimento familiare.
Di sicuro l’Iraq ha bisogno di ripristinare un tessuto sociale coeso, la cui tenuta è stata gravemente inficiata, negli ultimi anni, anche dalle brutalità compiute dall’Isis. Basti considerare che i danni subiti dal governo di Baghdad a causa dell’invasione del Califfato ammontano a circa 45,7 miliardi di dollari. Solo attraverso la ricostruzione di un’armonia solidale fra i tanti volti e le tante etnie che rendono così ricca la terra del Tigri e dell’Eufrate, sarà possibile realizzare un antidoto contro la riemersione delle violenze e garantire la stabilità del governo.
 
Chiara Bottazzi