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Martedì 15 Settembre 2020
Burkina Faso, cuore di una crisi regionale   versione testuale
15 settembre 2020

Il Sahel è da anni teatro di una crisi complessa, caratterizzata da diversi fenomeni che concorrono a mettere a rischio la sicurezza e la vita di milioni di persone, in stati già di per sé fragili. Cambiamento climatico e riscaldamento globale, profonde crisi economiche e ramificate trasformazioni socio-politiche creano conflitti che si aggravano a vicenda e che, all’alba degli anni Venti del secolo, hanno prodotto un endemico terrorismo jihadista, uno spostamento di sfollati senza precedenti e un clima da catastrofe umanitaria. Fattori locali e globali interagiscono, sottraendo poteri di mediazione e legittimità alle istituzioni tradizionali: queste si deteriorano, a scapito della coesione sociale e quindi della stabilità politica.
Al centro di questa tempesta è oggi una giovane democrazia saheliana. Il Burkina Faso, origine di quella che fu battezzata ‘’primavera africana’’, nel 2014 si è liberata del regime di Blaise Compaoré, che 27 anni prima aveva posto fine al governo e alla vita del giovane capitano Thomas Sankara con un golpe. Nel pieno di una crisi economica, politica e umanitaria, il paese si prepara alla seconda tornata elettorale democratica dopo quella del 2015, da celebrarsi in novembre, con un futuro di sfide.
 
Sahel in movimento
Il Sahel inizia dove le foreste pluviali dell’Africa occidentale si diradano e si estende nel semidesertico territorio che include buona parte di Burkina Faso, Niger, Mali, Ciad, Senegal, fino alle sabbie del Sahara: solcato da più frontiere, comprende paesi che condividono situazioni socio-politiche simili e tendono a influenzarsi reciprocamente.
Da secoli, la regione dove Burkina Faso, Mali e Niger si incontrano è un crocevia: vi si svolgono traffici e commerci, più o meno legali e formali, con un controllo statale impossibile e ulteriormente indebolito da una dilagante corruzione. Gli scambi illegali (droga, armi, carburante, migranti) si svolgono su una base familiare-clanica etnicamente marcata, con una divisione in zone rigidamente osservata da gruppi dal potere incontrastato.
La regione di confine soffre da sempre di una forma di marginalizzazione rispetto alle rispettive capitali, dalle quali non ha mai ricevuto piani di sviluppo o politiche di inclusione: uno scenario di infrastrutture e servizi inesistenti, abbandono, assenza d’attività produttive, scarso sviluppo umano e povertà profonda. Lo stato è assente, quando non nemico: condizione ideale per la proliferazione di attività illecite e gruppi criminali o jihadisti, valida alternativa per comunità prive di prospettive.
Cambiamento ambientale, carestie sempre più frequenti e prolungate e desertificazione completano il quadro, rendendo difficili le attività agricole e pastorali, unica fonte di reddito. L’incremento demografico, associato alla competizione per terre sempre più scarse, innesca inoltre un forte flusso migratorio, oltre che un sistema di tensioni complesso, soprattutto fra agricoltori e allevatori, che altera un equilibrio da sempre precario. L’attività produttiva, svolta con tecniche antichissime, tende infatti a essere praticata su base etnica, principale affluente di un conflitto che rappresenta oggi una sfida per l’integrità di stati che sostengono il peso di una crisi delle tradizionali autorità mediatrici.
 
Il jihadismo si doffonde dal Mali
L’origine della crisi regionale è il Mali. In cui, dopo anni di colpevole abbandono da parte del governo di Bamako, l’intervento francese, nel gennaio 2013, riuscì a smantellare lo stato jihadista nel nord, notevolmente rafforzato nel 2011 dal rientro di migliaia di ben armati tuareg dalla Libia di Gheddafi. Ma la guerra non impedì che la presenza dei gruppi terroristici si cronicizzasse, a partire da un’incontrollabile retrovia: nasceva il ‘’Malinstan’’.
La mescolanza con la popolazione civile ha di fatto sempre impedito il riconoscimento dei terroristi: da allora, gli infetti umori del jihadismo si sono diffusi ovunque. Il Mali non si è ripreso dalla crisi istituzionale e socioeconomica, come le contestate elezioni del 2018 e il colpo di stato dell’agosto 2020 dimostrano, in un contesto di corrosa coesione sociale e con due terzi del paese fuori controllo.
Prima vittima dell’infezione, il vicino Niger. Il paese con l’Indice di sviluppo umano più basso del mondo (189° su 189) presenta una compromessa autorità governativa, la cui influenza è limitata ai dintorni della capitale, mentre l’immenso territorio del paese è fuori controllo e sede di traffici ramificati quanto occulti. La posizione geopolitica lo rende un crocevia continentale, anche per migranti diretti in Europa: una sorta di imbuto di passaggio, nonché una nuova frontiera europea esternalizzata, sottoposto a pressioni internazionali e destinatario di finanziamenti che non smuovono la miserabile condizione della popolazione, la più giovane del pianeta (età media: 14 anni; il 71% dei nigerini è under 24). La repressione contro il traffico di migranti impedisce peraltro di lavorare a migliaia di persone, aumentando sia il risentimento contro il governo che la mano d’opera a disposizione dei jihadisti.
Le crisi di Mali e Niger ha intaccato anche il Burkina Faso a cominciare da nord, dove da 5 anni le infiltrazioni sono continue. In Burkina Faso, cause locali ben precedenti alla crisi maliana si sono connesse al contesto internazionale, attivando un conflitto che negli ultimi anni ha conosciuto una escalation inarrestabile, fino a farne il vero epicentro della crisi regionale: non solo un santuario per operazioni in altri paesi, ma un focolaio autonomo. La conseguenza è la totale corrosione di sicurezza e coesione sociale: la minaccia terroristica ha provocato la fuga dalle violenze di intere popolazioni, l’abbandono di vaste aree e una crisi umanitaria che mette sotto pressione stati deboli e tessuti produttivi fragili.
Le proporzioni della catastrofe sono evidenti: in Mali, a metà 2020, 218.500 persone erano in fuga dalle violenze e 1.129 scuole erano chiuse (338.700 bambini e 6.774 insegnati colpiti, il 12% delle scuole chiuse sul totale nazionale). Il Burkina Faso ha oggi 848 mila sfollati e 2.024 scuole chiuse. In totale, nella regione di confine tra i tre stati, gli sfollati sono almeno 1,1 milioni, 110 mila i rifugiati, 3,7 milioni le persone in condizione di insicurezza alimentare, 241 i centri di sanità inattivi e 3.641 le scuole chiuse (700 mila bambini e 20 mila insegnanti colpiti). 

Volontari o abusatori?
Dal 2015 in Burkina Faso è esplosa una violenza della quale il terrorismo è solo una componente. I soggetti in conflitto, soprattutto in zone rurali, sono molteplici e i fronti sono frastagliati: le forze regolari, divise da rivalità fra polizia, gendarmeria e esercito, si contrappongono ai gruppi jihadisti, e le diverse affiliazioni in lotta fra loro. Diversi gruppi di volontari civili si sono formati per ripristinare la sicurezza, originando abusi e lotte private ed etniche; a questo si aggiungano gruppi di crimine comune. I massacri e gli abusi non mancano in nessuno schieramento, e le vittime sono i civili inermi. La situazione della sicurezza, alla vigilia delle elezioni di novembre, è estremamente grave: dal 2015, primo attentato a Ouagadougou, almeno 550 attacchi si sono susseguiti prevalentemente contro i civili, provocando almeno 2 mila morti e 1 milione di sfollati interni (su un totale di 20 milioni di abitanti). Oggi, nel paese, 1,2 milioni di persone necessitano di sostegno umanitario
La percezione della sicurezza è inevitabilmente in deterioramento: nel 2019, il 51% dei burkinabé affermava di non sentirsi in sicurezza nel proprio quartiere (nel 2017, era il 29%) e il 34% temeva un attacco estremista, con punte del 70%, 56% e 53% nelle regioni Est, Centro Sud e Sahel. La maggior parte era (ed è) favorevole a sacrificare i diritti per la sicurezza: il 77% accetterebbe un coprifuoco, il 78% la sorveglianza su comunicazioni private e il 65% un intervento del governo in loghi di culto. L’83% apprezza l’opera di vigilanti, mentre il 56% approva la presenza militare straniera.
 
Poche terre, clima estremo
Buona parte dei conflitti deriva dalla competizione per le risorse, prima fra tutte la terra. In Burkina Faso e nel Sahel si contrappongono due modelli di sfruttamento dei suoli: da un lato l’allevamento (uso estensivo e pascolo libero del bestiame su superfici di proprietà comune) tradizionalmente praticato dai Fulani, seminomadi che si spostano seguendo le transumanze; dall’altro l’agricoltura, la cui produttività è legata a un uso rigoroso della terra in appezzamenti chiusi, strettamente connessa a calendari agricoli e cicli pluviometrici. Una differenza sostanziale riguarda anche l’uso dell’acqua per abbeveramento e irrigazione: i conflitti, insiti nella natura stessa delle risorse e delle attività, nel corso dei secoli sono stati gestiti in modo armonioso, sebbene mai esente da scontri.
Il cambiamento climatico ha mutato i fragili equilibri tradizionali: ha diminuito le terre produttive, impoverito i suoli, desertificato, stravolto calendari agricoli e precipitazioni, reso scarsa l’acqua a disposizione, proprio mentre l’incremento demografico richiedeva l’aumento sia di cereali che di proteine animali. La migrazione di coltivatori alla ricerca di nuove terre ha poi intensificato lo sfruttamento. Dopo il ‘’periodo umido’’ fra gli anni Quaranta e Settanta del Novecento, gli anni Settanta e Ottanta (‘’periodo secco’’) sono stati quelli dello shock: gli allevatori furono colpiti prima e in misura maggiore, mentre i coltivatori stanziali furono più rapidi nell’adattarsi, occupando terre comuni prima lasciate al pascolo.
La crisi ha svantaggiato chi era privo di terra e acqua propria, i seminomadi che necessitavano della risorsa altrui, sempre più preziosa e inaccessibile. Nel frattempo grandi dighe e infrastrutture di distribuzione idrica erano sempre più secche, insabbiate, prive di manutenzione. La crisi dei Fulani – già discriminati e poco rappresentati – a quel punto era iniziata, in un contesto di diritti di proprietà terriera molto confuso, fra il tradizionale e il formalizzato, che tende a premiare l’uso di fatto e non quello di diritto (gli stanziali sui nomadi, gli agricoltori sugli allevatori). Nessun miglioramento è intervenuto negli ultimi 30 anni, contrassegnati da erraticità atmosferica: troppo umido o tropo secco, ma sempre fenomeni estremi. L’origine del confitto sta nel ritardo dell’adattamento dei sistemi di produzione, delle modalità di sfruttamento e della distribuzione delle risorse.
 
Sinistra connotazione etnica
Il cambiamento climatico ha inasprito un confitto che ha assunto, di volta in volta, connotazioni etniche, religiose, jihadiste. In Burkina Faso, gravi disordini non mancano a est e sud-est, ma il quadro più preoccupante si registra nel Nord e nel Sahel: da sempre marginalizzata dal governo centrale, la zona è afflitta da povertà endemica, assenza di servizi e infrastrutture. I più danneggiati dal cambiamento climatico, gli allevatori, sono di etnia Fulani (8,4% della popolazione), tradizionalmente devoti musulmani. È presso la loro gioventù, marginalizzata e guardata con sospetto, che l’offerta jihadista ha fatto breccia, sia sul fronte del reclutamento, sia come credibile erogatore di protezione e servizi, mai giunti dallo stato. I Fulani, minoritari nel paese, sono però il 70-75% nel Nord: i jihadisti offrono l’accesso a pascoli e acqua, esigendo in cambio solo lo zakat (la decima musulmana) e garantendo tassi di corruzione pari a zero. Lo stigma del terrorista che ha colpito i Fulani, inoltre, ha aumentato ulteriormente risentimento e ricerca di protezione, che i gruppi salafiti strumentalizzano.
Per questo i numerosi “volontari” (koglweogo, 45 mila nel 2019), incoraggiati dallo stesso governo e votati a una difesa dei civili da attacchi terroristi che la polizia mal addestrata e mal equipaggiata non riesce a garantire, hanno assunto una sinistra connotazione etnica. In maggioranza formati da appartenenti alla popolazione Mossi, più che protettori sono presto sembrati esecutori di pulizie etniche contro i Fulani, presso cui i terroristi si confomilandono facilmente. Non mancano giustizia sommaria, controllo del prelievo fiscale, processi, spedizioni punitive, ribellioni contro la polizia che non riesce a controllarli: un vero stato nello stato. È evidente il peso che esercita sul conflitto la mancanza di autorevolezza dello stato, incolpato di oggettiva inefficienza, favoritismo verso i Mossi (il 53% della popolazione, elettoralmente remunerativo) ed eccessi nell’uso della forza.
Tutto questo, in un paese che non aveva mai prima conosciuto scontri etnici o religiosi. Indicato come unico modello di convivenza armoniosa fra religioni ed etnie in Africa Subsahariana, il Burkina Faso ha sempre visto crescere credenti in fedi diverse all’interno delle singole famiglie e nelle stesse feste, celebrate insieme nel quartiere, dove la religione è un fatto privato privo di peso sociale. Ma è una fase storica che volge al termine: il paese è terra di conquista di un Islam wahhabita purista, finanziato dalle petro-monarchie del Golfo, ma in minor misura anche di un rampante protestantesimo anglofono d’oltreoceano, identitario e poco incline alla tolleranza. I pacifici Islam tradizionale e cattolicesimo post-coloniale, colonne del tollerante modello storico, sembrano superati da manipolazioni politiche, frustrazioni capitalizzate e strumentalizzazioni.
 
Una guerra di religione?
Così nel paese dilagano gli attacchi alle chiese, retaggio occidentale, risalenti all’epoca coloniale: «Essere cristiani è pericoloso nel Nord. Non ci fermiamo neppure a parlare sul sagrato dopo la messa: corriamo a casa, e cerchiamo di non uscire», rivela un sacerdote Burkinabé.
Tuttavia la situazione è complessa rispetto al semplice schema di una guerra di religione. Come accennato sopra, l’origine del radicamento del Jihad a nord è, più che un nuovo fervore religioso, la frustrazione giovanile. Il profilo del jihadista burkinabé è atipico: privo di istruzione religiosa, proviene sempre da famiglie Fulani vittime di esproprio, ingiustizie nell’amministrazione delle terre, o limitata rappresentazione nelle istituzioni, per cui il massaggio di rinnovamento spirituale assume ai suoi occhi un carattere antisistema, dal quale egli ha solo da guadagnare. Insomma, uno strumento di riscatto sociale altrimenti non disponibile, o semplicemente di vendetta contro stato e comunità dominanti.
Il conflitto, peraltro, sembra anzitutto una guerra interna all’Islam, provocata dalla crisi di legittimità delle gerarchie tradizionali. «In effetti – prosegue il sacerdote - stanno uccidendo molti Imam nel Nord, non solo i cristiani». Lo scontro è anzitutto sociale, economico, generazionale: c’è una visione dell’Islam intransigente wahhabita, giovanile, rivoluzionaria, egalitaria, visceralmente vitale nella sua aberrazione, fatta di giovani esclusi e marginalizzati che vogliono scardinare l’ossificato assetto dell’islam africano, rammollito, devozionale, conservatore. E soprattutto, dominato da una casta sacerdotale di marabutti ereditari a capo di confraternite, percepita come vecchia, ricca, collusa con i governi, corrotta e prevaricatrice nella questione religiosa come nell’ordine sociale.
Gli incendiari sermoni dei salafiti, rozzi e giustizialisti, sono contro establishment, clero e capi tradizionali. L’insofferenza trova ancora una volta il suo riferimento nella questione fondiaria: durante il regime, Compaoré aveva stabilito nelle regioni rurali una solida rete di alleanze con i capi tradizionali, che si basava sull’assicurazione del consenso popolare in cambio della libertà garantita ai capi di gestire l’assegnazione delle terre, all’insegna dell’abuso. La questione fondiaria è uno dei motivi principali della cacciata del tiranno, che non è tuttavia bastata a sovvertire il sistema di potere che lo supportava attraverso prevaricazioni e ingiustizie. Il jihad rivela ancora una volta la sua promessa sociale e politica, e la democrazia la sua deludente inefficacia.
 
Elezioni, veicolo di contagio?
Le elezioni 2020 avverranno in un clima di crisi profonda. La giovane democrazia burkinabé, esauriti gli entusiasmi della rivoluzione di stampo sankarista nel 2014, sperimenta il travaglio di un popolo che si lancia in un processo democratico senza avere il solido retroterra socioeconomico che questo richiede per durare: condizioni di vita difficili, crisi economica, povertà diffusa, sicurezza assente, alta conflittualità sociale e sindacale, delegittimazione, confusione costituzionale, insofferenza e disillusione.
Il rischio di una escalation di violenza esiste, così come quello di un’ulteriore propagazione regionale. Il Burkina Faso, dopo essere stato infettato dal conflitto, rischia di essere a sua volta la porta per un ulteriore contagio in Africa occidentale, divenendo un corridoio jihadista per una conquista ben più ambiziosa. Il rapido espandersi del conflitto rischia infatti di trovare terreno fertile in Benin, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea, Togo.
Frontiere porose e saldi legami storici ne fanno inoltre temere la propagazione in un anno, il 2020, di elezioni delicate e controverse in paesi solcati da differenze etnico-religiose e con un passato di guerra civile ben più preoccupante del Burkina Faso (Costa d’Avorio, Guinea, Togo), al quale somigliano però per più motivi: le loro regioni settentrionali sono in prevalenza musulmane e lontane dalla capitale, dimenticate dai programmi di sviluppo, marginalizzate nei processi decisionali, prive di servizi e opportunità per i giovani, sede di un risentimento aspro contro il governo centrale. Anche qui, le divisioni etniche e religiose seguono le circoscrizioni, geografiche ed elettorali. La stessa frustrazione che ha sottratto il Nord del Burkina Faso al controllo di Ouagadougou, è più che mai presente in altri paesi della regione, e regala ovunque terreno alle retoriche jihadiste.
 
Federico Mazzarella