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Lunedì 21 Settembre 2020
Nel Libano sventrato, i giovani fanno sperare   versione testuale
21 settembre 2020

«Il Libano non può essere abbandonato alla sua solitudine». Papa Francesco, nell’udienza generale di mercoledì 2 settembre, ha speso un’accorata esortazione per il Paese dei cedri. E ha invitato i fedeli a una giornata di preghiera e digiuno in suo favore, a un mese dalla devastante esplosione avvenuta nel porto della capitale Beirut il 4 agosto.
La tragedia che sta vivendo il paese mediorientale travalica la sofferenza del popolo libanese, e rappresenta un’ulteriore minaccia al precario equilibrio della regione e agli ideali di «tolleranza, di rispetto, di convivenza» per i quali lo stesso papa Francesco ha indicato il Libano come un «paese di speranza».
L’esplosione del porto di Beirut, avvenuta ad agosto, con le centinaia di morti e le altre devastanti conseguenze, è solo l’ultima calamità vissuta dalla Terra dei cedri, in una spirale negativa che è iniziata ormai quasi dieci anni fa, in seguito allo scoppio della guerra siriana. L’intera economia del Libano, ma anche la sua vita culturale e sociale, erano infatti strettamente collegata al ruolo che il paese rivestiva nella regione mediorientale, travolto dalla guerra siriana, dalla conseguente diffusione del terrorismo islamico e dall’esacerbazione dello scontro, all’interno della comunità musulmana, tra il fronte sciita e quello sunnita.
 
Sembra il colpo di grazia
Tutti questi cambiamenti hanno travolto il Libano, che è stato letteralmente, e pacificamente, invaso da almeno due milioni di profughi siriani; che è stato lacerato al suo interno dalla partecipazione diretta di milizie di Hezbollah nella guerra siriana; infine che è stato vittima di attentati terroristici. Ma l’economia e le finanze pubbliche sono collassate, alla fine del 2019, non solo per le motivazioni appena descritte.
La corruzione e il malgoverno della classe politica libanese costituiscono infatti i veri responsabili del fallimento di uno stato, che come una fenice si era rialzato dalle proprie ceneri, dopo 15 anni di guerra civile. Proprio i responsabili di quella guerra fratricida sono stati incaricati della ricostruzione del paese e della sua società, e proprio con gli stessi schemi, ma con armi diverse, hanno continuato a dividersi il potere e le sue risorse, accumulando ricchezze senza costruire nulla in cambio: niente infrastrutture e servizi sociali, un sistema educativo e sanitario scadente e basato su istituzioni private, nessuna cura per l’ambiente e per i beni pubblici.
Tale sistema corrotto negli anni ha garantito rendite di potere, amplificando le differenze tra pochi ricchissimi (l’1% della popolazione detiene il 25% delle ricchezze del paese) e aumentando il debito pubblico, fino a livelli insostenibili. Un sistema che è crollato proprio nella seconda metà del 2019, quando la popolazione, ormai stremata e sdegnata, di fronte a nuovi scandali e soprusi si è ribellata, scendendo in strada e bloccando il paese.
All’inizio del 2020 il Libano si è trovato quindi ad affrontare la pandemia di Covid 19 senza un governo in carica, con il tasso di inflazione al 112%, il 75% della popolazione bisognosa di assistenza umanitaria, il 55% sotto la soglia di povertà, il 33% della forza lavoro disoccupata. Durante l’epidemia, almeno il 20% degli occupati ha subito una riduzione di salario. Molte persone malate non hanno avuto la possibilità di pagare le spese di ospedalizzazione. A tutto ciò si aggiunge la presenza di oltre 1,5 milione di profughi, per la gran parte siriani, su una popolazione di 5 milioni di persone: proporzione che fa del Libano uno dei paesi al mondo con il più alto tasso di presenza di profughi in rapporto alla popolazione.
Come se non bastasse, il 4 agosto è arrivato quello che sembra essere il colpo di grazia. Una tragedia inspiegabile, non casuale, che dimostra l’assurdità di un sistema politico e governativo che ha permesso che 2.750 tonnellate di un prodotto altamente esplosivo rimanessero abbandonate nel porto della capitale Beirut. Molti dicono che sia la più distruttiva esplosione dopo le bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki: oltre 190 morti, 6.500 feriti, 300 mila sfollati, miliardi di dollari di danni, la devastazione di infrastrutture come scuole, ospedali, strade ed edifici pubblici e privati.
 
Il lusso non garantisce il futuro
Ma forse questa tragedia rappresenterà la fine del sistema criminale e corrotto che ha governato il Libano. Forse sarà la famosa goccia in grado di far tracimare il vaso, che spingerà la popolazione a realizzare la rivoluzione di cui tutti parlano dal 17 ottobre scorso. Forse sarà la spinta che farà muovere la comunità internazionale in soccorso di un paese che non ha mai smesso di sperare.
Una speranza rappresentata in modo chiaro e bello dalla nuova generazione di libanesi: sono i millennials, nati sotto la guerra civile ma troppo piccoli per ricordarla. Figli di chi quella guerra non solo l’ha subita, ma la anche combattuta, in alcuni casi cercata. Figli di chi quella guerra l’ha dimenticata e rimossa, credendo che il benessere, alle volte il lusso, sarebbe bastato a costruire un futuro migliore per i propri figli. Ora questa nuova generazione è scesa in strada per iniziare una rivoluzione pacifica; si è attivata per assistere i più poveri con raccolte di cibo e generi di prima necessità; da ultimo non ha avuto paura di gettarsi tra le macerie e assistere migliaia di morti e feriti a causa dell’esplosione.
Dei giovani parla con grande rispetto padre Michel Abboud, presidente di Caritas Libano, in prima linea nell’assistenza alla popolazione libanese. «Dopo la tragedia di agosto, subito i giovani sono scesi in strada per aiutare. Per quanto riguarda Caritas, nell’immediato, dopo esplosione, sono arrivati 800 volontari da tutto il Libano: giorno e notte, per un mese, hanno lavorato senza sosta nel distribuire viveri, medicinali, rimuovere le macerie. Li ho spesso pregati di riposarsi, ma niente. In tantissimi hanno lavorato 24 ore su 24, animati dal desiderio di aiutare la propria gente».
I giovani sono andati anche casa per casa a distribuire gli aiuti, «perché moltissimi libanesi avevano paura ad abbandonare le proprie case, anche se danneggiate – continua padre Abboud –. Questa paura ha ragioni molteplici: il profondo stato di shock generato dall’esplosione; e il fatto che tanti vedevano la casa come metafora sospesa della loro vita. Molti pensavano: “Se non lascio la mia casa, la mia vita non cambia e continuerà a essere la stessa di prima della detonazione”. Altri ancora non se ne sono andati per paura dello sciacallaggio, dei ladri che proliferano sulle miserie altrui, come già accadeva in tempo di guerra».
 
Più poveri nel paese non povero
Lo spettro della guerra in effetti continua a far paura. Subito dopo l’esplosione, molti libanesi avevano ipotizzato l’inizio di un nuovo conflitto militare fra Israele e Hezbollah, o all’attentato nei confronti di un politico, come purtroppo già avvenuto nel recente passato al presidente libanese Bashir Gemayel, e pochi anni dopo al primo ministro Rafiq Hariri.
«Solo dopo abbiamo capito che si è trattato di un gravissimo incidente, di cui il sistema politico libanese è responsabile – afferma il presidente Caritas –. Il Libano non è un paese povero. Ma è un paese che vede giorno dopo giorno i poveri aumentare, mentre le ricchezze in mano di pochi, soprattutto di politici, continuano a crescere. E questo non è più accettabile. La nostra Caritas prima dell’esplosione assisteva circa 40 mila persone. Ora sono diventate 65 mila. Tanti dei nostri donatori, che fino al 4 agosto ci aiutavano, sono diventati beneficiari dei servizi Caritas. C’è bisogno di un tribunale internazionale che indaghi sull’accaduto, e di un nuovo governo, libero dai politici della vecchia classe dirigente, capace di costruire con i libanesi un futuro di pace. Non a caso anche papa Francesco ricorda che il Libano è qualcosa di più di uno stato: è un messaggio di libertà, è un esempio di pluralismo tanto per l’Oriente quanto per l’Occidente. E quindi, per il bene del paese e del mondo, non possiamo permettere che questo patrimonio vada disperso».
 
Chiara Bottazzi