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Casa, un diritto da reinventare   versione testuale
6 novembre 2020

Abitare ai tempi del coronavirus: potrebbe sembrare un titolo di un libro. Ma l’avvento della pandemia da Covid-19 ha mostrato tutta la fragilità abitativa di gran parte delle famiglie italiane. Il contesto, va detto, non era roseo anche prima della pandemia. Gabriele Rabaiotti, assessore alle politiche sociali e abitative del Comune di Milano, già 16 anni fa aveva posto in un suo libro (La ripresa della questione abitativa. Il senso di una domanda, 2004) interrogativi che ancora oggi sono validi e urgenti: dove conduce la strada che vuole tutti i cittadini proprietari di casa, in un quadro che, ridotte le protezioni sociali, espone sempre più persone al rischio di caduta, rendendole vulnerabili? Quali effetti sta producendo sul meccanismo dell’offerta l’ingresso di operatori internazionali della finanza immobiliare? Siamo in grado di riformulare un discorso sulla casa che porti pubblico e privato a identificare un terreno comune e a verificare la possibilità di sviluppare un ragionamento congiunto intorno all’abitare sociale?
A tali domande la risposta non è mai stata data. La casa è sparita dai dibattiti sulla città. E oggi, con l’epidemia, ci troviamo dinnanzi a città trasformate in deserti, con serrande abbassate e i cittadini costretti a vivere in casa (per chi l’aveva). Di colpo si sono manifestate tutte le piccole e grandi contraddizioni della società attuale, un equilibrio tra vita e lavoro malsano, centri urbani ormai divenuti non-luoghi in cui tutto è pensato in funzione del lavoro e del turismo, l’insostenibilità dell’economia della rendita urbana e, infine, la finta retorica del ritorno alla campagna. Nonostante manchi ancora lucidità rispetto alla condizione pre-Covid, dobbiamo prepararci in fretta a quello che verrà.
 
E chi non ce l’ha?
«Restate a casa». Questo invito è stato e viene ripetuto incessantemente ai cittadini, durante le fasi di lockdown. Ma la casa alle volte non esiste, e per alcuni è una prigionia ben peggiore rispetto al rischio di venire contagiati dal Covid.
Un punto di vista utile rispetto a quanto avvenuto durante il lockdown di primavera è quello riportato da uno striscione esposto in Perù: “La romanticizzazione della quarantena è un privilegio di classe”. La narrativa dominante del “restate a casa” e dell’“andrà tutto bene” è risultata infatti un palliativo utile a nascondere chi, nella realtà, restava escluso dai proclami quotidiani di sostegno e aiuto.
In effetti i primi a essere esclusi sono stati, prima di tutto, coloro che una casa non l’hanno mai avuta. Molti dei circa 50 mila senza dimora presenti nel territorio italiano hanno sicuramente avuto e continuano ad avere grossi problemi a ottemperare alle disposizioni governative, anche perché molte delle strutture di accoglienza hanno dovuto e devono sospendere gli ingressi per evitare focolai. L’immagine dei senza dimora a Las Vegas sdraiati nei parcheggi dovrebbe imprimersi nel subconscio collettivo, mentre purtroppo verrà dimenticata in fretta, non appena sarà possibile tornare alla normalità.
I secondi esclusi dalla narrativa prevalente sono stati carcerati e immigrati. Per quanto riguarda i primi, a fine febbraio 2020 i detenuti (nelle 190 strutture carcerarie italiane) erano 61.230, a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti, con un affollamento superiore al 119,4%. Con il Decreto “Cura Italia” sono entrate in funzione norme provvisorie per contenere il contagio e i numeri si sono sensibilmente ridotti. Così, a fine aprile, le persone detenute erano scese a 53.904 e a fine luglio erano 53.619, con un tasso di affollamento del 106,1%. Ma i carcerati, così come gli stranieri, continuano in generale a essere considerati cittadini di serie B: le condizioni di detenzione, in generale nel nostro paese,risultano incompatibili non solo con il contenimento del virus, ma pure con i più basilari requisiti della dignità umana.
 
Da rifugio a luogo di incontro
C’è poi la condizione di coloro per i quali la casa si trasforma in prigione: ci devono restare obbligatoriamente, ai fini del contenimento del virus, ma ciò fa emergere violenze e abusi, che spesso si riversano sulle persone più fragili, che è stato impossibile aiutare direttamente. Alla condizione di tali “scarti” della città e della globalizzazione si somma quella di chi, nell’isolamento forzato, rischia di vedere peggiorare le proprie condizioni di vita: a titolo di esempio, si possono ricordare i disabili rimasti senza sostegno educativo quotidiano, o chi subisce violenze di genere all’interno delle mura familiari.
Infine, l’ultima emergenza nell’emergenza ha riguardato le case di riposo, veri e propri acceleratori di contagi e di morte. Molti sono state le situazioni di case di riposo i cui ospiti sono stati sostanzialmente abbandonati a se stesse nella fase più complessa dell’epidemia.
Tutti questi casi ci indicano che la casa non andrà più intesa come rifugio: dovremo invece attivarci per renderla nuovamente luogo di incontro.
 
Rischiano anche i proprietari
In Italia il fenomeno della povertà era significativo ben prima dell’emergenza sanitaria: nel 2019 l’Istat rilevava 1,7 milioni famiglie in condizione di povertà assoluta, con un’incidenza pari al 6,4% (7% nel 2018), per un numero complessivo di quasi 4,6 milioni di individui valutabili come “poveri assoluti” (7,7% del totale, 8,4% nel 2018). Tali numeri tenderanno sicuramente a crescere, a causa degli effetti sociali della pandemia, e con essi la vulnerabilità legata da un lato al reddito e dall’altro alla casa.
Sul fronte abitativo, occorre ricordare quale sia la composizione sociale dei nuclei in proprietà e in affitto, poiché nei prossimi anni il mantenimento della propria abitazione dipenderà fortemente dalla condizione sociale di partenza. La percentuale più elevata di famiglie in affitto si posiziona nel primo quintile di reddito, ossia possiede un reddito familiare inferiore a circa 15 mila euro annui; il gruppo successivo è costituito da famiglie senza lavoro o con redditi bassi, poi da quello delle famiglie con età media inferiore ai 34 anni. Questi gruppi sociali, con molta probabilità, subiranno maggiormente gli effetti della crisi.
Anche le famiglie proprietarie di casa, però, non possono considerarsi fuori da ogni rischio; molte, infatti, risultano indebitate e la crisi immobiliare degli anni scorsi non ha ancora esaurito i suoi lunghi strascichi, testimoniati dalle migliaia di pignoramenti effettuati dal 2008 a oggi.
Al di là della condizione abitativa della famiglie italiane, un serio problema è comunque costituito dalla struttura dell’offerta degli alloggi a basso canone. In Italia, oggi, alla medesima ristretta quota di immobili di edilizia residenziale pubblica (in totale circa 950 mila alloggi, gestiti da Aziende per la casa e comuni) si rivolgono infatti sia nuclei familiari sulla soglia dell’indigenza, che presentano un Isee inferiore a 17 mila euro, sia quelli che, pur non potendo accedere al libero mercato, potrebbero comunque sostenere un canone di alcune centinaia di euro (indicativamente circa 250-300 euro per un alloggio tipo di 80 metri quadri). Ma l’offerta di questo tipo di alloggi è scarsissima, e nell’aree metropolitane è di fatto inesistente.
In alternativa alla definizione di canoni moderati, dovrebbero essere sviluppate – secondo il modello in uso in molti paesi europei – iniziative finalizzate a rendere disponibile un adeguato sostegno al reddito e rendere dunque sostenibili i canoni concordati (ai sensi dell’articolo 2 della legge 431 del 1998), oppure i canoni dell’edilizia convenzionata o agevolata. Ma la media di dotazione del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione (articolo 11 della legge 431) negli ultimi dieci anni non ha consentito di raggiungere questi risultati; occorre immaginare, se davvero si vuole centrare l’obiettivo definito dalla norma, un consistente, strutturato e permanente incremento delle dotazioni annue.
 
Oltre le ricette classiche
A partire da questi dati e questi elementi, non è difficile prevedere che nei prossimi mesi e anni la situazione del bisogno abitativo (e della povertà abitativa) in Italia si farà ancora più complessa, e imporrà uno sforzo comune ed effettivo per rispondere a diffuse situazioni di crisi. Ne parla, in un focus tematico, Gli anticorpi della solidarietà, ovvero il Rapporto 2020 su povertà ed esclusione sociale in Italia, pubblicato a metà ottobre da Caritas Italiana. Anche da questo studio si ricava che il ripensamento del sistema nel suo complesso, e lo sviluppo di nuove forme di politica abitativa, non possono essere rimandati, così come la necessità di trovare al più presto fondi strutturali e utili ad aumentare il numero di alloggi di edilizia residenziale popolare e forme di sostegno economico all’abitare.
Papa Francesco, nel suo recente messaggio ai partecipanti alla 9ª edizione del Forum “The European House – Ambrosetti”, svoltosi a inizio settembre sul lago di Como, ha ricordato che «dall’esperienza della pandemia tutti stiamo imparando che nessuno si salva da solo. (…) Non essendo stati capaci di diventare solidali nel bene e nella condivisione delle risorse, abbiamo vissuto la solidarietà della sofferenza».
È proprio alla luce di tale monito che occorre pensare a nuove ipotesi di lavoro, con alternative a quelle “classiche” dell’edilizia residenziale popolare o dei fondi per la locazione o la morosità. È un momento di responsabilità comune, anche perché non ci saranno mai le risorse necessarie a coprire un contraccolpo economico così inaspettato e ampio. Non lo dobbiamo sprecare.
 
Gianluigi Chiaro