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Venerdì 11 Dicembre 2020
Sudan, la pace che non decolla   versione testuale
14 dicembre 2020

A settembre monsignor Tombe Trille, vescovo di El Obeid, capoluogo dello stato del Kordofan, Sudan centro-meridionale, ha commentato all’agenzia Fides la firma degli accordi di pace in Sudan: «La gente da queste parti preferisce essere prudente: è la storia del nostro paese, dall’indipendenza del 1956 a oggi, che ce lo impone. Una lunga scia di guerra. Ma ora l’accordo di pace riguarda una grande parte del Sudan ed è molto importante che si sia finalmente giunti a una firma. Siamo prudenti, ma anche tutti molto felici». 
Gli accordi siglati sono soltanto una delle tante tappe di un cammino difficile. Le regioni del Darfur, del Sud Kordofan e del Blue Nile sono da sempre aree delicate e le firme per la pace sono arrivate – negli ultimi mesi – in momenti diversi, a ulteriore conferma della non omogeneità del contesto sudanese. Le lotte armate nel Sud Kordofan e nel Nilo Azzurro hanno peraltro radici nella guerra, prolungatasi per decenni, tra il governo centrale di Khartoum e le regioni meridionali, che alla fine portò alla secessione solo del Sud Sudan. Le resistenze delle regioni meridionali al potere di Khartoum traggono origine da divisioni etniche e religiose, ma soprattutto da una marginalizzazione a livello politico e socio-economico attuata verso di esse.
 
Non tutti hanno firmato
I recenti accordi hanno visto prima la firma per il Darfur a Juba, la vicina capitale del Sud Sudan, poi per gli stati del Kordofan del Sud e del Blue Nile, dove il conflitto negli ultimi anni ha colpito un milione di persone. Come hanno ribadito gli osservatori, però, nonostante i patti siano stati siglati da molti gruppi di ribelli dalle zone più calde di tutto il Sudan, resta la preoccupazione per la mancanza al tavolo dei negoziati di altri movimenti armati, sia del Darfur sia dei Monti Nuba. Il timore è che pur dettagliando molti aspetti della vita futura del paese, come ad esempio la divisione di ricchezze e potere su base regionale e la compensazione per le vittime del conflitto, il piano per la pace non sia globale e totalmente inclusivo.
Sempre dalle parole del vescovo di El-Obeid, nonché presidente della Conferenza episcopale per il Sudan e il Sud Sudan, si capisce che «la popolazione è felice perché almeno le ostilità si sono interrotte», ma a questo sentimento si lega la diffidenza di chi in molte regioni del paese ha ormai imparato a fare i conti con l’insicurezza.
Il Darfur, ad esempio, continua a essere teatro di scontri violenti tra il governo locale e i gruppi armati dal 2003, anche se in realtà le radici del conflitto vanno ben più lontane. I dati più recenti provano a darci una immagine di quale sia la portata di una crisi tanto prolungata quanto dimenticata. Nel 2017, pur rimanendo una forte instabilità, si osservò una prima diminuzione degli scontri armati nello stato occidentale del Sudan. Poi, nell'aprile 2019, le proteste in tutto il Sudan e la caduta del dittatore Omar Al-Bashir – figura imponente della storia del paese per oltre 30 anni, segnata da tanti lati oscuri che finalmente stanno venendo sempre più a galla –, riaccesero per qualche tempo i riflettori sul paese. Il rovesciamento del dittatore, spinto da una campagna pacifica e sostenuta da un movimento di protesta diversificato e ben organizzato, aveva alimentato la speranza in una lunga transizione da un governo militare a uno tecnocratico e, infine, a un governo guidato dai civili, per quanto possibile democratico e sicuramente più inclusivo.
 
Crisi umanitaria sempre acuta
Dopo i fatti del 2019, ci si aspettava una transizione lunga, ma non così, e soprattutto non così piena di ostacoli. L'accesso alle aree di conflitto precedentemente limitate è rimasto difficile e così il Sudan ha continuato a rappresentare il teatro di una delle più grandi e articolate crisi umanitarie protratte al mondo. Aggravata peraltro da una serie di fattori: una pesante crisi economica; una mancanza diffusa di infrastrutture e servizi pubblici forti; un’insicurezza alimentare spiccata, con livelli di malnutrizione alti, aggravata da focolai di malattie come colera o dengue.
A tutto ciò si aggiungono fattori di insicurezza generale alimentati da un alto tasso di criminalità, combattimenti inter-tribali e una grande diffusione di armi da fuoco, facilmente reperibili. L’alto numero degli sfollati interni, associato alla già menzionata mancanza di infrastrutture e alla scarsa protezione che le autorità riescono a garantire, impedisce il ritorno alle zone di origine di una grande parte delle comunità locali. Ma, soprattutto, continua ad alimentare la forte dipendenza del paese dagli aiuti esterni, allontanando nuove possibili opportunità socio-economiche.
 
Ora anche gli sfollati dall’Etiopia
Si è già scritto che arrivare alla firma degli accordi di pace in Sudan non è stato un percorso facile e uniforme, ma proprio dal Darfur sono partite le prime proteste pacifiche. Prima di tutto per chiedere che fossero garantite misure di sicurezza a tutela dei civili, soprattutto donne e bambini, vittime di violenza e attacchi a villaggi, mercati e campi profughi da parte delle milizie che per decenni hanno animato la guerra civile. Tra le ragioni delle proteste, vi era anche la richiesta, sollevata a gran voce da tutti, di sostituire i vertici delle istituzioni militari e civili nominati dal vecchio regime di Al-Bashir e mai cambiati. Grazie anche alle comunità darfuriane in altre regioni del Sudan, le proteste si sono allargate nel paese, raggiungendo anche la capitale. Non tutto è continuato sempre pacificamente, ma sicuramente ha sbloccato una situazione di stallo.
La crisi nel paese rimane complessa. In Darfur, ad esempio, i bisogni umanitari continuano ad aumentare. Si stimano circa 9,3 milioni di persone, il 23% della popolazione, bisognose di assistenza umanitaria, mentre 1,87 milioni di sfollati interni e 1,1 milioni di rifugiati e richiedenti asilo continuano a necessitare di assistenza umanitaria e supporto di protezione, sia dentro che fuori dai campi e all'interno delle comunità ospitanti. 
A peggiorare la situazione, va aggiunto che ogni anno tutto il Sudan viene colpito da disastri naturali, in particolare inondazioni. Da marzo 2020, il Covid-19 ha ulteriormente e duramente messo alla prova un sistema sanitario già fragilissimo. Secondo i dati pubblicati a inizio dicembre dal ministero della salute, il paese sta affrontando la seconda ondata della pandemia, con oltre 19 mila casi positivi e oltre 1.300 decessi.
Da non sottovalutare un altro recente fattore di destabilizzazione: la crisi nella vicina Etiopia. Il timore è che, con i grandi afflussi di rifugiati in Sudan a causa della crisi nel Tigray (7 mila arrivi solo a metà novembre 2020, da fonti Unhcr), la crisi degli sfollati interni nelle regioni meridionali richiami ancora meno l’attenzione della comunità internazionale. Perché la chiamano pace, ma assomiglia tanto a un limbo.
 
Nicoletta Sabbetti