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Don Enrico, parroco con la porpora   versione testuale
16 dicembre 2020

No, non era Carnevale. Era proprio Cardinale. La parola giusta, il suggello di un ministero sacerdotale che dura da 55 anni. Il riconoscimento che papa Francesco ha voluto – sorprendendo lo stesso diretto interessato – attribuire a don Enrico Feroci, 80 anni, una vita da prefetto nei seminari romani, poi da parroco nei quartieri della Capitale. Con una parentesi (9 anni) da direttore diocesano Caritas, senza la quale «la mia vita sarebbe stata monca». Don Enrico è porporato dal 28 novembre, giorno del Concistoro. E riflette con Italia Caritas sul significato che il servizio ai poveri ha avuto nella parabola di un semplice parroco divenuto “principe della Chiesa”.
 
Don Enrico… o Eminenza? Che titolo preferisce che le venga rivolto?
È una vita che mi chiamano don Enrico. Non posso rinunciare al mio percorso. Eminenza è una parola che non avevo messo in bilancio e che mi si addice poco.
 
Ha dichiarato che non si aspettava la nomina a cardinale. Ma qual è stata la sua reazione dopo la notizia?
Che non mi aspettassi questa nomina credo sia ovvio; alla notizia ho provato sconcerto, smarrimento. Quando domenica 25 ottobre sono venuti i miei collaboratori a dirmi che il Papa mi aveva nominato cardinale, ero in sagrestia e stavo per iniziare la messa delle 12.30. Ci ho scherzato sopra: macché cardinale, sarà Carnevale. Poi mi si è offuscata un pochino la vista, tanto è vero che per la celebrazione mi hanno sostituito... Sono andato nei prati a camminare. Nel mese successivo ho vissuto uno tsunami: le congratulazioni degli amici delle parrocchie di San Frumento e Sant'Ippolito e della Caritas, poi l’ordinazione episcopale, infine il concistoro il 28 novembre. Ma ho cercato di continuare a fare quello che facevo, a vivere la mia vita da parroco.
 
Che interpretazione dà della scelta compiuta dal Papa?
Ho cercato di interpretarla alla luce del Vangelo. Gesù normalmente quando voleva far comprendere un pensiero, più che dirlo faceva dei gesti. Davanti alla persona malata, ha guarito anche in giorno di sabato, pur non contestandone l’osservanza: voleva far capire che Dio sta nel dolore e nella sofferenza di una persona, prima che nel culto. Ecco, credo che papa Francesco, con il gesto che ha fatto, più che dare un riconoscimento a una persona perché ha compiuto certe cose, abbia voluto dire a tutti i cristiani – fedeli, sacerdoti e vescovi – che l’invito più importante che emerge dal Vangelo è stare vicini a coloro che hanno bisogno. Ha voluto mandare un segnale, non dare un riconoscimento. Perché tutti capiscano l’importanza della persona in quanto tale, soprattutto la persona che ha bisogno. Perché se vogliamo incontrare Dio, lo incontriamo lì, nel volto del sofferente. Il Papa ha mandato un segnale, perché noi riscoprissimo l'autenticità del Vangelo e di quello che Gesù ci ha insegnato
 
Molti hanno anche notato che il Papa, con nomine come la sua, sta cercando di dare al collegio cardinalizio una composizione più aderente all’esperienza “normale”, quotidiana di tanti sacerdoti. A lei ha detto: «Il Papa fa cardinale un parroco». Cardinali meno principi della Chiesa, più pastori “con l’odore delle pecore”: lettura corretta?
Io attualmente sono parroco. Scegliendo me, non ha scelto un teologo, un pastoralista, ma uno che vive sul campo, cercando di fare bene il proprio dovere. Ciò è un bene per la Chiesa: significa che ognuno, ogni persona, ogni sacerdote, facendo quello che sta facendo può partecipare all’evangelizzazione, operando accanto al pastore che governa il popolo intero. Io sono parroco, ma come tanti altri miei compagni e amici che fanno le stesse cose.
 
E allora perché la porpora proprio a lei?
Al concistoro ho detto al Santo Padre: «Santità, è la prima volta nella storia che un Papa dà il cardinalato a una categoria di persone, cioè ai parroci di Roma, ai suoi sacerdoti, per ringraziarli perché loro sono le sue mani, che toccano il corpo di Cristo nei poveri e nei fedeli. Io La ringrazio perché mi ha scelto come stampella per portare il vestito; il vestito che ho addosso non è il vestito di don Enrico, è il vestito che dovrebbero portare tutti i parroci di Roma, che servono il popolo di Dio a nome Suo e in vece Sua. Come dice il Concilio, ogni parroco celebra l'Eucarestia con il suo popolo in rappresentanza del Papa». E poi c’è un’altra sottolineatura. Il Papa ha fatto cardinale un parroco non in senso generico, ma veramente parroco. Tutti i cardinali sono parroci titolari di una chiesa di Roma, ma l’unico cardinale residenziale parroco sono io. Forse Francesco voleva sottolineare l’aspetto della residenzialità, cioè dell'essere veramente parroco, e in questo veramente “cardine” e cardinale, accanto al vescovo di Roma.
 
Che peso ha avuto, a suo parere, l’essere stato per 9 anni direttore di Caritas Roma nella nomina a cardinale?
Il 15 novembre, quando sono stato ordinato vescovo, ho ringraziato un po’ tutte le persone che ho incontrato, rappresentative di quello che è avvenuto nella mia vita, nelle varie esperienze, seminari, parrocchie ecc ecc. Ho detto pubblicamente che se mi fossero mancati i 9 anni da direttore della Caritas diocesana, la mia vita sarebbe stata monca. Quell’esperienza mi ha ristrutturato spiritualmente e mentalmente, e mi ha fatto vedere tutti coloro che ho incontrato e incontro in un’altra dimensione. Nella parrocchia hai gratificazioni enormi, bellissime; le mie esperienze con le parrocchie romane, sia San Frumento che Sant’Ippolito, sono state di una bellezza straordinaria. Ho vissuto esperienze di gioia con una comunità parrocchiale, ma lavorando in Caritas mi sono reso conto che quella era una gioia parziale, cui mancava un aspetto importante. Non che io da parroco avessi trascurato i poveri, anzi; avevo costruito anche una Casa della carità, ma gli anni in Caritas mi hanno aiutato a mettere a fuoco il valore e l’importanza della persona in quanto tale, non per come appare o per la condizione o il ruolo in cui si trova.
 
Il valore della persona in quanto tale: in che senso?
Riferisco un piccolo aneddoto; per far capire. Una volontaria Caritas mi raccontava che da quando aveva fatto il corso le orecchie ascoltavano meglio, quando andava in giro appena vedeva una persona che aveva bisogno la accostava. Ma un giorno si trovava alla stazione Termini e si è avvicinata a una persona, notando che indossava un paio di scarpe rotte. Le ha chiesto come stava e se poteva comprarle un paio di scarpe. Quella la guardava e non diceva niente, poi a un certo punto ha alzato la testa e ha detto: «Ma no, ma lascia perdere, mettiti qui e parliamo un po’». È la relazione ciò che importa: la volontaria voleva coprire i piedi, ma quell’uomo aveva bisogno di essere ascoltato. Così, ai volontari che venivano a fare servizio nelle mense ho sempre raccomandato di andare oltre il piatto di minestra, di sedersi accanto alle persone mentre mangiavano. La relazione è fondamentale: Dio si è messo in relazione con noi e i poveri sono coloro che ci possono insegnare come ci si mette in relazione. Un uomo incontrato dal servizio notturno Caritas inizialmente non parlava, poi ha spiegato di “avere le ragnatele in bocca”. Era un povero, ma soprattutto era solo: l’esperienza in Caritas mi ha insegnato che è fondamentale non solo servirlo in quanto povero, ma ascoltarlo in quanto uomo. 
 
Anche attraverso nomine come la sua, papa Francesco dimostra di continuare a operare per dare alle Chiesa una proiezione “in uscita”, capace di stare nelle periferie, e di sintonizzarsi con esse. Ci sta riuscendo? È un percorso irreversibile, o teme che le resistenze prevalgano? 
Ho incontrato un giorno papa Francesco a San Giovanni, quando ero ancora direttore della Caritas; era venuto a salutare alcune famiglie sfrattate. Parlando con lui, ho detto «Noi la ringraziamo, perché da oggi chi costruisce una parrocchia non può più pensare che sia solamente un luogo di culto». Accanto al luogo di culto, è necessario che ci sia il luogo della carità, dell’accoglienza, della disponibilità, perché ci sono tante famiglie che piangono. Non possiamo limitarci a lodare Dio dentro un luogo di culto, senza considerare la sofferenza di tanti fratelli. Il Papa ha cambiato il modo di pensare i nostri ambienti, e soprattutto una mentalità: oggi non si può più pensare a una parrocchia chiusa in sé stessa, che non si preoccupa per le tante persone che soffrono. Per Natale, quest’anno, è legittimo pensare al cenone e all’orario della messa di mezzanotte, ma non possiamo dimenticare le oltre 60 mila famiglie che negli ultimi mesi, in Italia, hanno pianto la morte dei propri cari. Se possibile incontriamo la famiglia e andiamo alla messa della vigilia, ma questo non deve creare una sofferenza ancora maggiore, le condizioni per il pianto e il dolore di tante altre famiglie. L’attenzione all’uomo è fondamentale; nell’attenzione all’uomo e alle sue sofferenze incontriamo la presenza di Dio. Questo vuol dire essere Chiesa “in uscita”.
 
Un pensiero, in proposito, per il mondo Caritas: in 9 anni come l’ha visto cambiare? L’esigenza sempre più spinta di gestire servizi – eterna questione – rischia di mettere in ombra o di appannare il compito educativo?
Io ho tentato di “distruggere” la Caritas, nel senso che ho operato per sparpagliare il più possibile i servizi nelle parrocchie e nelle coscienze delle persone. Certo, io e i miei collaboratori abbiamo operato per rendere più valida, significativa ed efficiente l’organizzazione, però il primo compito di un sacerdote è insegnare. Dico sempre a operatori e volontari: se quello che facciamo non insegna niente, non serve, non dobbiamo più farlo, altrimenti c’è il rischio che i poveri ci servano piuttosto che servirli. E se arriviamo a un punto in cui noi strumentalizziamo i poveri per lavoro, siamo fuori strada. Mi sembra che il cambiamento che papa Francesco si augura nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, l’attenzione privilegiata di cui scrive, materiale e anche spirituale nei confronti dei poveri, si stia concretizzando; la gente ha fame non solo di pane. Mi sembra che alcuni passi lungo questa strada siano stati fatti, benché molti ne restino da fare. Prima della pandemia vedevo un contrasto enorme tra un volontariato praticato da tanti e una tendenza a chiudersi per la paura, ancora più diffusa. Dobbiamo difenderci da qualcuno: è l’atteggiamento che vedevo prevalente, e c’è da sperare che non porti a chiudersi verso coloro che hanno bisogno. Mi sembra però che durante l’epidemia si sia manifestata una risposta positiva, con tanta generosità nelle parrocchie e in generale nella società. Un patrimonio di attenzione e disponibilità che non va disperso.
 
Una domanda al parroco: quali riflessi morali, psicologici e spirituali ha avuto e sta avendo l’epidemia sulle persone che incontra ogni giorno, e sulle comunità? Siamo ormai quasi alla vigilia di Natale: nel cuore della gente, nonostante tutto, trova spazio la speranza?
Le presenze in parrocchia sono naturalmente calate, ma qui al Santuario del Divino Amore abbiamo una ricchezza enorme. Dal 24 maggio, da quando abbiamo riaperto le chiese e per tutta l’estate, abbiamo celebrato all’aperto: la gente è venuta, ce n’era tantissima, si sentiva sicura con le mascherine e le debite distanze. La gente viene perché ha bisogno di essere aiutata, di essere supportata nello smarrimento che avverte: il lockdown non è stato solamente un fatto fisico, con la necessità di rimanere confinati in casa, ma ha sconcertato il cuore della gente, lo ha appesantito. E dunque le persone vengono qui. Noi tutte le sere recitiamo la preghiera di papa Francesco perché liberi il mondo da questa pandemia, e liberi la città di Roma così come l’ha liberata dalla guerra. È come il famoso voto che i romani avevano fatto alla Madonna del Divino Amore con Pio XII: di nuovo attendono una liberazione, e noi dobbiamo fare eco a questa speranza.
 
Paolo Brivio