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Mercoledì 23 Dicembre 2020
Il virus ai margini del paradiso   versione testuale
23 dicembre 2020

La pandemia non ha risparmiato il Kenya. I test si fanno anche nel paese leader dell’Africa orientale, ma non è possibile garantire una copertura capillare. E a fatica si può avere una fotografia reale della diffusione del contagio. I pochi dati accurati raccontano che il tasso di positività si attesta al 10% del totale dei test Covid effettuati, e quello di mortalità intorno al 7%.
Difficile, si diceva, avere un quadro chiaro della situazione sanitaria del paese. Si sa però che da ottobre, ovvero dopo la parziale riapertura del paese e l’allentamento delle misure restrittive, inizialmente molto forti, i casi di positività al virus hanno iniziato ad aumentare, soprattutto nelle grandi città e sulla costa. Il turismo dall’estero ha conosciuto un drastico calo, nell’anno della pandemia, in compenso però sono aumentati i viaggi di keniani ed espatriati residenti nel paese verso i villaggi e le località turistiche, ad esempio i parchi nazionali e le città – appunto – della costa. E questo può avere contribuito alla diffusione dell’epidemia.
Così, in vista del periodo natalizio, ci si aspettavano misure restrittive, in alcune aree del paese, simili a quelle della primavera, per non peggiorare l’estensione della crisi e preservare il sistema ospedaliero, che le autorità dichiarano in difficoltà ma non ancora al collasso. La realtà del sistema sanitario, però, in alcune regioni è davvero problematica, e chi se lo può permettere si sposta a Nairobi, dove ancora si può trovare qualche posto disponibile in ospedale. Nelle strutture della capitale gli investimenti fatti per aumentarne la capienza sono stati diversi rispetto ad altre città, contee, regioni. E comunque l’accesso alle cure non è gratuito, per molti continua a essere un lusso.
Poi ci sono le condizioni sociali, a condizionare l’evoluzione sanitaria. Benché norme restrittive e protocolli siano stati definiti accuratamente, non sempre e non ovunque sono rispettati in egual misura. Difficile, soprattutto, garantire il distanziamento sociale per tutti: anche la distanza diventa un lusso, soprattutto nelle aree periferiche delle grandi città, dove la popolazione deve affrontare costi alti per servizi minimi o inesistenti. E su tutti incombe, a prescindere da ogni opportunità economica, lo sciopero del personale sanitario, che alcuni professionisti hanno già avviato. Si attende con ansia di sapere se ad esso si uniranno anche i medici; ma importante sarà soprattutto capire quanto durerà. L’ultimo grande sciopero risale al 2017, poco prima delle elezioni presidenziali, e gli effetti si protrassero a lungo. I lavoratori chiedono giustamente tutele per chi è impegnato in prima linea a rispondere all’emergenza sanitaria. Ma il rischio è che si inneschi un braccio di ferro senza vie d’uscita. Da più voci, sono stati lanciati appelli al dialogo per una soluzione comune.
 
Baraccopoli sull’oceano
Come appariva chiaro sin dalla primavera, gli effetti della pandemia sul medio e lungo termine riguardano diversi ambiti, non solo quello sanitario, di una società. Il Kenya non fa eccezione. Allontanandosi dalle più famose baraccopoli di Nairobi, come Kibera o Korogocho, note per essere tra le più grandi al mondo, e monitorate da vicino dai media nazionali e internazionali, nel resto del paese si aprono scenari magari meno convulsi e affollati, ma altrettanto complessi e difficili.
Seguendo le attività dell’arcidiocesi di Mombasa, e quelle della Caritas diocesana locale, si scopre per esempio la realtà delle famiglie che abitano nelle aree periferiche del grande porto turistico e commerciale, in particolare nelle baraccopoli.
L’arcidiocesi di Mombasa, affacciata sull’Oceano Indiano, è molto estesa e comprende alcune tra le contee keniane più colpite dal Covid-19 sin dall’inizio della pandemia, come Kilifi e Kwale, oltre alla stessa Mombasa, grande città dove si sono verificati i primi focolai. Qui le restrizioni sono arrivate in fretta, si era capito dall’inizio che la regione e le attività che la animano avrebbero avuto un impatto forte sulla veloce diffusione del virus. La città vecchia è stata off limits per molto tempo. I risultati di tali limitazioni, in alcuni casi, come a Kwale, sono stati migliori che in altri territori, dove si registrano i tassi più elevati del paese di diffusione del contagio. Ad ogni modo, il miglioramento non è irreversibile: proprio negli ultimi giorni Mombasa e Malindi, altra “capitale” del turismo internazionale, sono tornate in cima alle liste, complici gli spostamenti per le vacanze annuali.
 
“A giornata”, cioè più esposti
Secondo l’esperienza dello staff di Caritas Mombasa, le conseguenze della pandemia non hanno colpito tanto “nuovi poveri”, ma chi vive ai margini da molto tempo. Per l’organismo pastorale, di conseguenza, non si tratta di promuovere in tempi brevi nuovi tipi di intervento, ma di riuscire a garantire che i servizi minimi (che già prima sembravano essere fondamentali e forse anche non sufficienti) possano continuare a operare, nonostante le restrizioni di movimento e una crisi economica globale che ha messo in crisi anche la cooperazione internazionale.
Le categorie più a rischio sono sicuramente composte da persone con disabilità, malati terminali e coloro che se ne prendono cura, famiglie monoparentali, in particolare quelle con madri single. Il comune denominatore, tra queste categorie, è un reddito “a giornata”, non sempre assicurato. Molte di queste persone, anche grazie alla partecipazione a precedenti interventi di micro-credito, erano riuscite ad avviare piccole attività generatrici di reddito: punti di ristoro di strada, vendita di frutta e verdura, commercio di vestiti di seconda mano. Per molti di loro le restrizioni di movimento, seppur necessarie a limitare i contagi, hanno portato all’impossibilità di approvvigionarsi di materie prime. Per altri, le difficoltà economiche hanno comportato la perdita dello spazio di lavoro o addirittura della casa, in quanto non sono stati in grado di pagare l’affitto, senza alcuna possibilità di dilazioni o proroghe. La diminuzione degli affari ha fatto il resto.
Quasi tutte queste persone, che vivono ai margini della grande città, e in qualche modo ai margini del paradiso balneare e del grande business del turismo, raccontano che le scuole chiuse e il rientro in famiglia degli studenti hanno avuto effetti diversi. Le famiglie hanno vissuto la preoccupazione di non poter garantire l’istruzione ai giovani, e d’altro canto avere una o più persone in casa da sfamare ha destato forti preoccupazioni. Molti esperti, sin dall’inizio della pandemia, avevano sollevato la medesima preoccupazione, in riferimento ai paesi nei quali ancora oggi, purtroppo, il sistema scuola riesce a essere una delle poche garanzie per un pasto giornaliero completo.
Nelle dinamiche delle famiglie, d’altro canto, secondo quanto riportato da molte madri, mai come nei mesi di lockdown si è verificata l’opportunità di vivere a stretto contatto con i propri figli, e di osservarli, soprattutto gli adolescenti, che normalmente trascorrono molti mesi lontani da casa per frequentare la scuola. Certo, a breve si presenterà il problema di riuscire a pagare le rette scolastiche, quando le scuole riapriranno a gennaio, anche se i genitori non hanno lavorato per molti mesi e tutte le spese sono state ridotte alle più strette necessità.
Un duro impatto è stato causato, oltre che agli studenti e alle loro famiglie, a tutti gli insegnanti delle scuole private, la maggior parte dei quali dall’inizio della pandemia non hanno visto accreditato alcuno stipendio. Molti hanno dovuto re-inventarsi, dando disponibilità per lavori temporanei, qualcuno offrendo poche consulenze di settore, i più fortunati insegnando privatamente presso famiglie che si potevano permettere di organizzare lezioni private singole o di gruppo.
 
L’altra faccia della solidarietà
Con il manifestarsi dell’emergenza, la solidarietà familiare ha nuovamente giocato un ruolo fondamentale, ancora prima che arrivasse la macchina dell’emergenza, senza farsi troppo i conti in tasca. La maggior parte delle famiglie che vivono nei sobborghi di Mombasa ha raccontato che, ancor prima di rientrare nel circuito dei primi interventi d’aiuto, molti hanno dovuto accogliere figli di fratelli e sorelle o parenti lontani, che in un momento di particolare difficoltà non avevano molte alternative. 
Il lato oscuro della solidarietà orizzontale però esiste anche qui, con un aumento delle denunce per violenze domestiche o abusi. Molti centri di accoglienza per minori raccontano che, non appena si è potuto tornare a viaggiare, molti minori già reintegrati in famiglia sono tornati a chiedere aiuto. Così anche le corti competenti si trovano oggi a gestire molti più casi. Anche i casi di violenze sulle donne sono in aumento, e molte sono le giovani che raccontano di aver dovuto vendere il proprio corpo per qualche soldo in più, per comprare anche solo un pacco di pane da mettere in tavola.
La necessità di garantire la continuità dei servizi nel territorio ha propiziato nuove sinergie e collaborazioni. La Caritas locale, ad esempio, è riuscita a collaborare più attivamente con le parrocchie, soprattutto nelle periferie. Molti i volontari di tutte le età che hanno dato nuove disponibilità nel servizio. Si vive insomma, per certi aspetti, un periodo di particolare fermento, cui corrisponde la necessità di un ripensamento delle forme di solidarietà, per cercare di capire come organizzarsi e strutturarsi. La speranza, pur nelle difficoltà di un’epidemia che inasprisce una già aspra povertà, riesce a trovare nuovi spiragli per germogliare.
 
Nicoletta Sabbetti