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Lunedì 4 Gennaio 2021
La tragedia dei camminanti a ritroso   versione testuale
4 gennaio 2021

Anche a causa della pandemia da Covid-19, il 2020 si è chiuso in Venezuela con un bilancio di forte criticità sociale e sanitaria. In realtà, già ben prima dell’attuale situazione di emergenza, il paese si trovava in condizioni di estrema difficoltà, a causa di una crisi strutturale che lo interessa ormai da più di dieci anni, a diversi livelli: politico, economico, umanitario e sociale. La pandemia è stata la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso già abbondantemente ricolmo di disagio ed esclusione sociale
Il Covid ha comunque generato diverse problematiche. Uno degli aspetti di maggiore criticità riguarda la tragica situazione dei migranti di ritorno nel paese. Assunta Di Pino è la vicepresidente di Ali onlus (Associazione Latinoamericana Italia), sodalizio costituito per volontà di un gruppo di italo-venezuelani desiderosi di aiutare il paese latinoamericano, di cui sono originari, dedicandosi alla raccolta e spedizione di medicinali e presidi sanitari. L’attività è sostenuta anche da Caritas Italiana e alcune caritas diocesane. «La crisi umanitaria gravissima che ha colpito la mia terra – esordisce Di Pino – ha provocato nel corso degli anni un fortissimo esodo di persone, letteralmente scappate da un paese con tassi di indigenza e povertà inimmaginabili fino a pochi anni prima. Queste persone sono andate alla ricerca di migliori condizioni di vita in altri paesi sudamericani, soprattutto Ecuador, Brasile, Argentina e Colombia, ma si sono spinte anche in Europa. Li abbiamo chiamati caminantes, perché i loro viaggi della speranza sono stati fatti spesso a piedi. Si stimano che 4 milioni di persone abbiano camminato per anni, attraverso tutto il continente latinoamericano. Dopo anni di sacrifici, queste persone si sono lentamente radicate nei paesi di approdo, vincendo anche i pregiudizi a loro sfavore: a causa di numeri effettivamente alti, in alcune località l’arrivo dei migranti venezuelani non è stato gradito. I venezuelani sono stati visti con sospetto, nonostante il fatto che, come dimostrano i dati, i miei connazionali all’estero non siano stati coinvolti in attività illegali o criminali».
 
Cosa facevano i venezuelani all’estero, nei paesi latinoamericani? E lo scoppio della pandemia cosa ha provocato?
L’inserimento si è prodotto diversi livelli. Molti venezuelani all’estero hanno fatto per anni lavori precari, itineranti, ma che comunque garantivano la sopravvivenza negata in patria. Molti vendevano per strada arepas ed empanadas, prodotti di street food molto popolari in America Latina, e per i quali la cucina venezuelana è rinomata. Con lo scoppio dell’epidemia, un gran numero di migranti del Venezuela sono stati, diciamo così, “invitati” a ritornare nel loro paese di origine, in quanto non più graditi dai locali sistemi politici e sanitari, già in forte difficoltà nell’assistere gli abitati autoctoni. In ogni caso, molti di loro non riuscivano più a vivere nei paesi di emigrazione, in quanto le misure da coprifuoco introdotte da molti paesi latinoamericani impedivano loro di esercitare le attività commerciali su strada che fino a quel momento ne avevano assicurato la sopravvivenza. Così in molti si sono rimessi in cammino. Dopo tanti sacrifici, hanno dovuto far ritorno in Venezuela. Settimane e settimane di cammino. A piedi. Sui pullman. Oppure approfittando di passaggi collettivi. Un ritorno lungo e difficile, che in alcuni casi non si è ancora completato.

Una volta giunti in Venezuela, cosa è accaduto ai caminantes?
In realtà, i problemi più gravi sono cominciati alle porte del paese. Una volta giunti alle principali località di frontiera, ai confini con la Colombia o il Brasile, i caminantes sono obbligati a 15-20 giorni di quarantena, in condizioni di accoglienza disumane. Abbandonati a se stessi, rischiano di morire di fame nei capannoni, dove si trovano a convivere persone sane con altre persone risultate positive al Covid. E dopo la quarantena, i problemi non finiscono: non ci sono quasi mai mezzi di trasporto sufficienti per continuare il viaggio, e a volte la meta finale è lontana migliaia di chilometri dalla prima frontiera raggiunta. Così fanno ricorso a sistemi informali di trasporto, che consentono solo di spostarsi e allontanarsi dalla frontiera per una manciata di chilometri. Per di più, tutto questo ha un costo: si pagano anche 200 dollari per un passaggio in camion o in pullman, in modo da uscire dalla zona di quarantena. A volte, per lasciare il campo, si è costretti a pagare tangenti ai militari di guardia, poi quando si esce si è da soli, di fronte a un incerto destino. Ci sono stati anche episodi tragici: il 14 dicembre una barca che trasportava migranti è naufragata, provocando la morte di 14 persone al confine marittimo tra Venezuela e Trinidad Tobago. Una tragedia ignorata dai media, di cui pochissimi hanno parlato.
 
Qual è la situazione Covid in Venezuela? Come viene vissuta la crisi dagli abitanti?
In Venezuela la misura era colma già prima del Covid. È stata solamente una disgrazia in più, in un paese dove l’acqua arriva nelle case a turni e l’energia elettrica viene erogata a fasce orarie, anche negli ospedali. Non ci sono statistiche affidabili sui morti per Covid in Venezuela, anche perché si fanno pochissimi tamponi. Il dato ufficiale parla di 110.513 persone positive dall’inizio della pandemia e di soli 993 morti. In realtà, pare un dato altamente sottostimato. Il fatto è che in Venezuela si muore di tutto, anche di malattie curabili con farmaci da banco. Sono tornate malaria e tubercolosi, e questo in uno dei paesi del continente americano che per primo aveva debellato queste malattie. Ma sono cose che non si dicono da nessuna parte. Così come non si conoscono le statistiche di denutrizione dei minorenni. Figuriamoci i dati sulla diffusione del Covid: ripeto, è solo una disgrazia in più.
 
In questo desolante panorama, come agiscono la Chiesa, la Caritas e le organizzazioni di ispirazione cristiana?
Fanno tantissimo. Accolgono i caminantes, assistono alle frontiere, cercando spesso una difficile mediazione con le forze militari. Organizzano hollas comunitarie di cibo, grandi pentoloni di alimenti caldi che vengono distribuite ai bisognosi. Anche per questo ci sono stati tanti sacerdoti malati e anche morti. Ma in nessun caso si è bloccata l’attività di aiuto e assistenza, come è invece accaduto in altri paesi occidentali, dove l’età media del volontariato è più anziana rispetto a quanto accade in Venezuela. Sul versante sanitario, a fronte di un sistema al collasso, l’azione ecclesiale di fornitura di medicine e dispositivi di protezione è stata di fondamentale importanza. Anche per sopperire a condizioni igieniche di base quantomeno precarie. Nelle case di tante famiglie, in Venezuela, non c’è acqua corrente tutti i giorni: in certe condizioni, non è possibile mantenere un minimo di igiene e profilassi sanitaria. Come invece, in tempi di Covid, è ancora più necessario.

Walter Nanni