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Venerdì 26 Febbraio 2021
Tigray, la catastrofe ignorata   versione testuale
27 febbraio 2021

All'inizio di novembre 2020, nella regione del Tigray è esplosa una nuova guerra. Il Tigray è una regione a nord dell'Etiopia, che si affaccia su Eritrea e Sudan, dove la preoccupazione per una possibile corsa alle armi serpeggiava da mesi. Sin dai primi scontri, la Chiesa locale e diverse organizzazioni non governative presenti nel territorio non hanno risparmiato appelli, lanciando l'allarme a proposito di una potenziale catastrofe. Che oggi di fatto si consuma.
Già il contesto generale del paese non era rassicurante. L’Etiopia stava vivendo infatti un periodo di estrema fragilità, alle prese con molteplici crisi umanitarie, causate da sfollamenti, insicurezza alimentare, eventi meteorologici estremi. Le alluvioni ricorrenti, che avevano colpito più di 1 milione di persone già prima dei venti di guerra, avevano causato la distruzione di raccolti e mezzi di sussistenza, esacerbando i rischi di carestia. Inoltre, da anni il paese lotta contro le locuste che hanno invaso la regione, colpendo anche paesi vicini (Kenya, Somalia, Sudan, Eritrea), fino a quelli disposti sull'altra sponda del Mar Rosso (Yemen e Arabia Saudita). I danni maggiori nelle lande africane si sono registrati soprattutto dopo giugno 2020, quando i raccolti, già non ottimali, erano in gran parte maturi e sono andati distrutti.
La pandemia da Covid-19 ha certamente reso la situazione più difficile e complicata, aggiungendo all’insicurezza alimentare una diffusa insicurezza sanitaria. Su questo terreno, esteso grosso modo all’intera Etiopia, si è dunque innestata l’insicurezza politica e militare che ha coinvolto il Tigray (una delle regioni più povere del paese, segnata da un alto tasso di malnutrizione e da carente copertura sanitaria), ma non solo. Tensioni e scontri inter-comunitari e politici, infatti, si sono verificati anche in altre aree, per esempio nella regione Benishangul Gumuz e nella zona di Konso (regione dello Snnp), dove da anni vi sono proteste e scontri tra forze governative e gruppi che contestano la suddivisione amministrativa della zona.
Le conseguenze umanitarie di questo intricato scenario non hanno tardato a manifestarsi. Tra fine novembre e i primi di dicembre, i primi dati ufficiali pubblicati dall'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) tramite il governo etiope denunciavano che le persone in stato di necessità avevano superato i 21 milioni.
 
Èlite dominanti, oggi combattute
Il contesto già fragile del Tigray, arido e impoverito, si è ulteriormente deteriorato dopo le tensioni prodotte dalle elezioni. Infatti, già dal 2019 il governo nazionale aveva dichiarato che le elezioni legislative e regionali, previste per il 2020, si sarebbero regolarmente tenute, nonostante l'instabilità in alcune regioni chiave come l'Amhara e un fallito colpo di stato nel mese di giugno. Poi, però, la pandemia ha rimescolato le carte, il voto è stato rimandato in tutto il paese senza una data certa e solo recentemente si sono avute indicazioni su una possibile finestra a giugno 2021.
Il Tigray, a quel punto, non rispettando le indicazioni generali provenienti da Addis Abeba, è andato alle urne per le elezioni regionali a settembre 2020, dando il via a un continuo crescendo di tensione tra il governo guidato dal giovane primo ministro Abiy Ahmed e il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), che dopo il 1991 ha contribuito a contribuito a mantenere un equilibrio nel paese, anche se non in maniera impeccabile.
Le radici del conflitto, però, sono più profonde. Le élite tigrine, infatti, hanno dominato per vent’anni la scena politica etiope, con una grande coalizione tra partiti regionali, fino alle proteste di piazza del 2015, che hanno dato una svolta alla vita del paese, denunciando la diffusa corruzione. Con l’arrivo del nuovo primo ministro Abiy e lo scioglimento del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf), al quale aderiva anche il Tplf, le relazioni con il governo centrale sono ulteriormente peggiorate.
Ne è scaturita una serie di provocazioni che hanno inasprito i contrasti, fino al casus belli delle elezioni di settembre e poi agli attacchi di novembre. In una dichiarazione pubblicata sui social, infatti, Abiy Ahmed, vincitore del Premio Nobel per la pace 2019 e indicato da molti come l'uomo del dialogo per aver concluso la firma degli accordi di pace con la vicina Eritrea, dopo quasi venti anni di guerra, ha scritto: «La linea rossa è stata superata. La forza viene utilizzata come ultima misura per salvare le persone e il paese». È seguito l'isolamento, con il taglio delle comunicazioni telefoniche e dei collegamenti internet, ma anche dei voli interni per il capoluogo tigrino Makallè, la città santa di Axum, Gondar e Shirè.
Così, da più parti, sono state espresse preoccupazione e denunce per la totale impossibilità di avere notizie su ciò che sta accadendo (solo negli ultimi giorni il premier Abiy sta riaprendo la regione alle agenzie di stampa internazionali). Diversi richiami si sono levati perché sia garantito un accesso umanitario alla regione, non ancora completamente fruibile. Il valzer di accuse reciproche e smentite ha reso vani i ripetuti appelli della comunità internazionale, di papa Francesco, dell'Unione Africana, preoccupati per i fragili equilibri dell’intera regione, anche oltre i confini etiopi.
Infatti, bisogna ricordare che il Tigray costituisce una porta sul Sudan, attraverso la quale in queste settimane stanno transitando decine di migliaia di profughi. Il Sudan ha un’annosa controversia territoriale con l’Etiopia nella sua parte orientale, sul confine della regione Amhara, e periodicamente la situazione si acutizza. La Grande diga del rinascimento etiopico (Gerd) gioca poi un ruolo importante nelle relazioni con l'Egitto. Infine, permane l'annosa questione con l'Eritrea, dopo una pace tanto attesa e da poco siglata, e a rasserenare gli animi non giovano certo notizie come quella diffusa a fine febbraio da Amnesty International, secondo cui truppe militari di Asmara si sarebbero rese responsabili a novembre, sconfinando nel Tigray, di eccidi di massa e altri crimini di guerra, colpendo non solo gli acerrimi nemici tigrini del Tplf, ma anche la popolazione civile.
 
Emergenza per 4 milioni
Proprio i civili hanno dovuto sopportare i danni peggiori del nuovo scenario di conflitto. Decine di migliaia sono le vittime e centinaia di migliaia le persone in fuga all’interno del Tigray, così come nelle vicine regioni di Amhara e Afar e verso il Sudan. In totale, gli sfollati interni si stimano in oltre 1,3 milioni e i rifugiati in Sudan in almeno 61.415. L'Alto Commissario dell'Unhcr, Filippo Grandi, ha invitato più volte le autorità a ripristinare i servizi di base nel Tigray e ad aumentare l'accesso umanitario alla regione, poiché la situazione è estremamente grave.
Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), nel Tigray, già prima del conflitto, le persone che necessitavano di assistenza umanitaria erano 950 mila, ai quali ora vanno aggiunte altre 1,3 milioni di persone. In realtà le cifre sono incerte, e secondo altre fonti, estendendo l’area di crisi alle regioni limitrofe che accolgono sfollati, a febbraio 2021 sarebbero circa 4,5 milioni le persone in stato di bisogno. Particolarmente preoccupante è la situazione alimentare: in una vasta parte del Tigray si registrano livelli di carenza di cibo assai gravi, sull’orlo della carestia, con la registrazione dei primi morti per fame. Preoccupa, per converso, anche la condizione dei circa 96 mila rifugiati eritrei ospitati nei quattro campi presenti nel Tigray, alcuni dei quali risultano gravemente danneggiati.
Le agenzie umanitarie e la Chiesa locale hanno identificato alcuni bisogni primari: protezione per le categorie più vulnerabili; fornitura di cibo; potenziamento dell’assistenza sanitaria, data la scarsità di medicine e servizi primari; accesso ad acqua e igiene, per attenuare l’alto rischio di epidemie; implementazione di soluzioni abitative temporanee e fornitura di utensili di base. Alle parti in conflitto si chiede di cessare le ostilità, tornare al dialogo, garantire l'accesso umanitario tramite corridoi protetti per raggiungere la popolazione civile, infine mantenere aperto il flusso delle comunicazioni.
 
Aree ancora irraggiungibili
Secondo Human Right Watch, esistono prove evidenti di violenze commesse contro i civili e di vittime tra di essi, di bombardamenti indiscriminati, di esecuzioni extragiudiziali e di saccheggi. Secondo gli aggiornamenti puntuali di Eepa (Europe External Programme with Africa), centro studi con sede a Bruxelles, anche «l'Alto rappresentante dell'Unione Europea, Joseph Borell, ha dichiarato in un comunicato urgente che l'aiuto nel Tigray è improrogabile, che le accuse di violazioni dei diritti umani devono essere indagate e che il diritto internazionale deve essere rispettato. Ha poi aggiunto che l'80% dei 6 milioni di cittadini del Tigray è ancora irraggiungibile, e ci sono aree in cui i combattimenti sono ancora in corso senza garanzia di accesso umanitario».
Anche il presidente della Federazione Internazionale della Croce Rossa, Francesco Rocca, ha recentemente rilasciato un’intervista in cui racconta la devastazione che ha visto durante la sua ultima visita in Tigray, difficilmente paragonabile anche ai peggiori scenari già visti nella sua vita professionale. Ha dichiarato di essere ancora «sopraffatto dal livello di emozione e impatto che la visita ha avuto su di lui», e che i bisogni sono enormi perché le persone non hanno cibo, acqua, medicine. Il 90-95% delle strutture sanitarie non funziona ed è stato particolarmente colpito da una «aggressione sistematica alle strutture sanitarie». Infine, ha espresso preoccupazione per la situazione molto instabile sul campo.
La 46a sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite è iniziata da poco e durerà fino al 23 marzo 2021: la guerra in Tigray fa parte dell'Agenda, la speranza è che le istituzioni internazionali riescano a imprimere una svolta a una situazione da tempo avvitata in un dramma oscurato.

Nicoletta Sabbetti