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Sarà un paese per giovani, se lo sarà per i vecchi   versione testuale
10 marzo 2021

Costruire il futuro dell’assistenza agli anziani non autosufficienti. È il titolo della Proposta per il Piano nazionale di ripresa e resistenza che il Network Non Autosufficienza ha aggiornato il 6 marzo, dopo averla presentata a fine gennaio. La Proposta – un documento di 80 pagine, imperniato sull’individuazione di 4 criticità fondamentali, alle quali corrispondono altrettante azioni di risposta – è avanzata dagli 8 soggetti che fanno parte del Network e sostenuta anche da Caritas Italiana. Il presupposto è chiarissimo: un paese che si appresta a investire quasi 200 miliardi di euro per rialzarsi dopo la batosta tremenda sferrata dal Covid, non può dimenticare coloro che della pandemia sono stati le prime vittime. Agli anziani non autosufficienti vanno destinate attenzioni e risorse, ma prima ancora una riforma organica delle politiche di settore: il professor Cristiano Gori, docente di Sociologia all’Università di Trento e coordinatore della Proposta, spiega perché tutto ciò non è in contrasto con le esigenze di un paese che deve rialzarsi guardando al futuro.
 
Il Covid-19 ha tragicamente evidenziato la fragilità della popolazione anziana in Italia. Abbiamo fatto peggio o meglio di altri paesi, nel proteggere i nostri vecchi? E ci sono aspetti o carenze tipici del welfare italiano, che hanno pesato nel determinare gli effetti della pandemia?
Fare confronti è complicato e non è consigliabile. Certo, tecnicamente abbiamo fatto peggio di altri nelle case di riposo, ma questo è legato al fatto che se in quegli istituti vivono il 2% degli anziani, e non il 6% come altrove, significa che si tratta di persone in genere molto più fragili, con tassi di mortalità superiore. Ma è una banale questione matematica. Anziché ragionare sul peggio o sul meglio, conviene piuttosto ragionare sull'eredità e sulle lezioni che la pandemia ci ha impartito, rispetto alla necessità di cambiare qualcosa nel sistema di assistenza ai nostri anziani. La pandemia ha mostrato i limiti del sistema, rivelando le sue debolezze. Se nell'ordinario un sistema di politiche pubbliche è fragile, esposto a una pressione senza precedenti non potrà che palesarsi fragilissimo. Ma le debolezza sono delle politiche: nella retorica della (sbagliata) criminalizzazione delle case di riposo, si è molto scaricato sulla gestione dei servizi, ma il problema sono proprio le politiche di sistema. Le case di riposo sono state lasciate sole e non sono state supportate; nel momento di massima pressione e di massimo attacco, non hanno potuto fare altro che incappare in una serie di rovesci. E allora dobbiamo mettere rimedio politicamente. Analizzando i dati sull’età media e sui profili di fragilità dei morti con Covid, si ricava che gli anziani non autosufficienti e i grandi anziani (sopra i 75-80 anni) hanno manifestato i maggior tassi di decessi con Covid. Sarebbe paradossale che il Piano nazionale di ripresa e resilienza connesso ai 191 miliardi del Ricovery Plan e che vede la luce per rispondere a una tragedia si dimentichi la principale vittima di quello stesso dramma.
 
Nelle premesse della Proposta avanzata dal Network si ricorda che il nostro paese è carente, rispetto ad altri paesi europei, sia riguardo allo sviluppo di reti di assistenza domiciliare, sia quanto all’offerta di posti nelle strutture residenziali. Accade perché le relazioni famigliari in Italia tengono più che altrove? E responsabilizzare la famiglia, rispetto alla cura dei vecchi, non è un bene?
Questo è il punto. E il problema. In un modello familistico, il rischio è che l’investimento sui servizi sia molto ridotto, mentre superiore è l’investimento superiore sulle indennità di accompagnamento, sui contributi economici. Ma il punto è che oggi, in Italia, il primato attribuito al modello familistico troppo spesso non vuol dire che si confida nella famiglia, ma che si scarica sulla famiglia. Le relazioni famigliari sono importanti, ma le famiglie vanno messe nelle condizioni per svolgere questo compito, senza che diventi un carico insostenibile. E allora giova ricordare che in Italia si discute dalla fine degli anni Novanta di una riforma nazionale, che però non è mai stata fatta, ma adesso rappresenta un passaggio ineludibile. Il Pnrr non potrà fare tutta la riforma nazionale, perché è uno strumento eccezionale, che non consente di determinare un incremento della spesa corrente (e ovviamente una riforma nazionale avrebbe bisogno di un investimento strutturale sulla revisione e conduzione dei servizi). Però è uno strumento ottimale per avviare un percorso riformatore: è esattamente quello che noi proponiamo, oltre naturalmente al fatto che si allochino risorse economiche all’altezza. Principalmente sulla domiciliarità, di cui – fra qualche anno, dopo l’investimento iniziale – si dovrà fare carico il bilancio dello Stato, in una prospettiva strutturale ordinaria.
 
Giustamente ricordate che la fragilità degli anziani, e la loro non autosufficienza, hanno dimensioni sanitarie, sociali, relazionali ed economiche, tali da richiedere una cura (care) multidimensionale, più che cure (cure) settoriali. Questo modello di presa in carico comporta una profonda revisione delle prassi assistenziali e di welfare prevalenti: le nostre istituzioni, e in generale i soggetti che erogano i servizi, hanno le risorse, anche culturali e di conoscenza, per convertire i loro modelli di intervento?
Facciamo un passo indietro. La nostra non è una proposta originale: le cose da fare sono condivise da lungo tempo, il problema è cominciare a farle, e proprio per questo non possiamo perdere l’occasione del Pnrr. I modelli di intervento in teoria sono molto chiari, poi nella pratica tutto risulta estremamente complicato. Noi riteniamo che in Italia le risorse culturali ci siano, e in ogni caso prevediamo un piano straordinario di formazione. L’impianto del sistema di assistenza geriatrica dovrebbe prevedere uno sguardo complessivo sull'anziano e la sua famiglia, elaborando un ventaglio di risposte integrate e incrementali. Questo nella pratica non accade: normalmente si segue una logica del cure clinico-sanitario, imperniata su determinate prestazioni, con risposte specifiche ai bisogni. Una logica del genere, per definizione; non “vede” il famigliare. Se il tuo problema è la prestazione infermieristica, se quello è il tuo obiettivo, naturalmente il famigliare non esiste; se l’approccio è complessivo e integrato, si deve pensare anche a un affiancamento del famigliare che funge da care giver.
 
Tra le linee di intervento che voi sollecitate, in effetti, c’è la “riforma dei servizi domiciliari”. In quale direzione prevalente? In cosa le famiglie vanno supportate?
Noi stimiamo in 7 miliardi le risorse che il Pnrr dovrebbe dedicare al segmento demografico degli anziani e a quello sociale della non autosufficienza. Ma fossero anche meno, le risorse economiche, non sarebbe un problema insormontabile: le famiglie infatti vanno supportate anzitutto sul piano della qualità, della continuità e dell’innovatività dei servizi. L’importante è partire. L'errore da evitare è limitarsi a sostenere che questo sia un settore sottofinanziato: non dobbiamo riprodurre le criticità di oggi su più larga scala, ma mettere un maggior numero di risorse cambiando modello. Oggi, ribadisco, le famiglie chiedono soprattutto servizi. Provate a chiedere loro a cosa dare la priorità tra contributo economico, alcune ore di assistenza domiciliare in più o qualcuno che dia informazione, consulenza, affiancamento, consigli: la risposta verte sempre su quest’ultima esigenza, lo dimostrano ormai tutti gli studi. Dunque: priorità non tanto ad assegni più generosi, quanto a servizi più efficaci e tagliati su misura. A partire dall’esigenza di affiancamento e informazioni.
 
Per anni noi abbiamo affidato i nostri vecchi e i nostri malati alle cure delle badanti. Nel vostro sollecitare la riforma, prevedete indicazioni anche per questo genere di soggetti?
Mettiamo due punti fermi. Primo, da ribadire: noi proponiamo l’avviamento della riforma, non il suo svolgimento completo. Sarà quest’ultimo a dover portare a una revisione degli aspetti contrattuali legati al ruolo delle badanti, però noi suggeriamo di non partire da qui, perché su questo tema non c’è ancora una piena concordanza nel dibattito tra soggetti politici e sociali interessati. Noi suggeriamo di partire dai temi che sono ampiamente condivisi, dai quali è più facile partire. Quindi partiamo dei servizi domiciliari come priorità, secondo una logica multidimensionale: solo in questa cornice si arriva a considerare la badante, il tema del sostegno alla badante, dei corsi per la badante, della sua qualificazione e certificazione...
 
Torniamo alle case di riposo. Nei mesi della pandemia hanno mostrato drammatiche fragilità, spesso inversamente proporzionali alle loro dimensioni. La vostra proposta chiede di “Riqualificare le strutture residenziali”: significa anzitutto ridimensionarle e spargere le unità di offerta nei territori? Non rischia di essere antieconomico e creare inefficienze?
No, il problema non sta nelle dimensioni. È una questione anzitutto di infrastrutture e di organizzazione. È dimostrato, anche a livello internazionale, che il Covid è stato meno incisivo nei paesi dove le strutture per anziani avevano un maggior numero di camere singole. In Italia nella maggior parte dei casi le persone non sono in camere singole, ma non dipende dalle dimensioni degli istituti. Per questo proponiamo un investimento straordinario nella riqualificazione delle strutture: è una questione di dotazione strutturale. Non si può fare tutto, però il Pnrr permette di fare investimenti una tantum per sistemare alcune cose, e questa destinazione è perfetta. La pandemia ha colpito in maniera meno dura nei paesi in cui l’assistenza agli anziani è un settore più riconosciuto e dotato di migliori strutture e modelli organizzativi; non è il caso dell’Italia.
 
Molti dei temi da voi affrontati rimandano a una diversa articolazione dell’offerta di servizi nei territori. Come bisogna orientarsi in proposito?
Bisogna riconoscere di più la specificità del settore dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, che è un ibrido istituzionale, essendo collocato a metà tra il sociale e il sanitario. Da una parte serve un riconoscimento istituzionale superiore: bisogna migliorare il sistema di governo. D’altro canto, occorre rafforzare gli interventi nel territorio, a cominciare dall’unificazione dei percorsi di accesso ai servizi, che siano sociali o sanitari. Questo è un punto fondamentale. Nel dibattito post Covid c’è stata molta cattiva informazione. Noi avremo sempre bisogno di Rsa per soggetti non autosufficienti gravi: c’è un profilo di persone non autosufficienti, per lo più ultra85enni, che necessitano di risposte che solo una Rsa può dare. Il punto decisivo è che in queste strutture vada solamente chi ne ha veramente bisogno: quindi bisogna riqualificare le strutture residenziali, ma insieme occorre articolare maggiormente la rete dell’offerta nei territori. Nella proposta noi approfondiamo solo due elementi, che stanno ai due estremi del sistema: il rafforzamento dell’assistenza domiciliare e della residenzialità. Ma naturalmente bisognerà poi articolare tutto quello che c’è in mezzo: residenzialità leggera, centri diurni, ecc. È più un problema di politiche, più che di innovazione; di esperienze di residenzialità leggera è disseminata l’Italia, il problema è che fanno fatica ad entrare nell’unità di offerta e degli accreditamenti. È la sistematizzazione di quanto già si sperimenta che manca. 
 
Domanda finale, un po’ provocatoria: voi proponete che l’Italia destini circa 7 dei 209 miliardi di euro del Recovery Plan allo sviluppo di una politica finalmente organica per la non autosufficienza. Ma perché investire tanto per i vecchi, in un paese che sovente dimentica e comunque non garantisce le Next Generations?
Le esigenze delle due generazioni non sono necessariamente in antitesi. Intanto, tutti gli studi dimostrano che uno dei pochi settori in cui si potrà facilmente trovare nuova occupazione, in futuro, in Italia e in Europa, sono i servizi di cura. Che ci sarà sempre più lavoro è certo: l’importante è far sì che sia un buon lavoro, caratterizzato, a fronte dell’impegno psico-fisico sicuramente elevato che comporta, da remunerazioni, contratti e tutele all’altezza. D’altra parte, più il lavoro di cura viene reso appetibile, più ne risente in positivo la qualità della cura... In definitiva: poiché è un dato assodato dai demografi che nell’Italia di domani ci saranno sempre più anziani non autosufficienti, dobbiamo operare affinché l’assistenza offra non solo ai vecchi, ma anche alle giovani generazioni migliori condizioni di lavoro, e di conseguenza, migliori condizioni di vita. Come sempre, nel campo delle politiche sociali la competizione o la contrapposizione tra bisogni, tra povertà, tra segmenti sociali e tra generazioni non è vincente per nessuno. Vincente è solo la coesione, delle proposte e degli interessi.
 
Paolo Brivio