La Caritas, a volte confusa con un'associazione di volontariato o un'agenzia di aiuti umanitari, è in realtà l'organismo pastorale della Cei che opera per diffondere – nella Chiesa e nell'intera società - la testimonianza della carità, la logica del servizio, l'amore preferenziale per i poveri e gli emarginati. Caritas Italiana nasce dopo il Concilio Vaticano II, ne è un frutto maturo e consapevole. Si colloca nel solco della "Gaudium et Spes", il grande documento sulla Chiesa nel mondo contemporaneo il cui celebre prologo vale la pena di ricordare: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo...». Il Concilio ha in mente una Chiesa che sta dentro la storia e cammina con la gente.
Dentro questa Chiesa, la funzione della Caritas è prevalentemente pedagogica. Vale a dire che lavora per educare alla carità e alla solidarietà, per diffondere comportamenti e stili di vita improntati al dono di sé, al coinvolgimento verso il vicino di casa come sui grandi problemi del mondo: guerre, ingiustizie, sottosviluppo. L'intervento sulle povertà non prescinde mai dalla conoscenza delle cause e dall'impegno a intervenire su di esse per rimuoverle.
Si parte dalla convinzione che il gesto che conta sia quello che coinvolge, che apre ad ulteriori impegni, che porta a pagare di persona e a lavorare perché cambi l'intera società, perché siano eliminate quelle che papa Giovanni Paolo II ci ha insegnato a chiamare "strutture di peccato". Carità è quella che cambia il cuore e la vita.
È il silenzioso lavoro di molti volontari in Italia e nel mondo, l'accompagnamento dei piccoli e dei poveri perché possano recuperare dignità di vita, l'impegno nelle zone devastate dalla guerra e dall'odio per ricostruire e riallacciare legami di pacificazione in un'ottica di giustizia, pace, liberazione, solidarietà e bene comune.
Sulla base di questi presupposti dalle mille altre tragedie che si consumano nel mondo derivano per tutti noi lezioni di vita. Innanzitutto la pace e la solidarietà non possono essere standardizzate, chiuse in schemi assoluti, ma vanno costruite ogni giorno e ognuno di noi è chiamato a dare il suo apporto, anche denunciando situazioni e meccanismi che colpiscono i più deboli ed indifesi e mantenendo viva l'attenzione dell'opinione pubblica su questioni spesso rimosse o considerate marginali e che invece coinvolgono tanti fratelli in tutto il mondo.
Per questo non possiamo e non dobbiamo fermarci alla pura e semplice emotività, che rischia di essere strumentale alla rimozione del "povero" dal nostro quotidiano.
C'é bisogno di accompagnare la "generosità emotiva" per farla evolvere in almeno due direzioni: una è la conoscenza, nel senso di passare dalla percezione iniziale di un problema occasionalmente incontrato alla consapevolezza più ampia delle povertà del territorio e del mondo, alla domanda/ricerca sulle cause, al contatto personale e coinvolgente con coloro che vivono in situazione di bisogno, sofferenza, esclusione. L'altra direzione di crescita è la continuità: occorre alimentare la disponibilità, superare gesti ed impulsi occasionali ed episodici per stabilire contatti stabili, coltivare legami, collegarsi ad altre persone impegnate, costruire amicizie ed alleanze, accogliere e relazionarsi con l'altro rispettandone sempre dignità e valori.
Solo così potremo costruire un territorio solidale e senza frontiere, dove vivere da fratelli e sorelle, figli di un unico Padre.
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