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Lunedì 4 Maggio 2020
Tunisia: controllo ai robot, il futuro spaventa   versione testuale
5 maggio 2020

Sarà un Ramadan austero, quello che è iniziato il 23 aprile in Tunisia. Quest’anno le moschee non si affolleranno il venerdì per la preghiera. I fumosi e rumorosi caffè della shisha non saranno i luoghi di incontro preferiti dopo una giornata di digiuno. Soprattutto, la Medina non offrirà il suo consueto spettacolo incendiandosi di vita, profumi e luci dal tramonto al mattino.
Nemmeno la Tunisia vorrebbe abituarsi alla nuova normalità del Coronavirus. Ma immancabile, anche nel paese nordafricano, è l’appuntamento con il bollettino quotidiano dei nuovi casi, a fine aprile ormai 939, un terzo dei quali nella regione della capitale, 110 i pazienti in terapia intensiva, e 38 le vittime. Cifre tutto sommato limitate, incoraggianti, che inducono a credere che le durissime misure adottate dalle autorità siano state efficaci. Tuttavia, se è vero che di certo i casi sono assai di più e che il grado di diffusione del virus è di fatto ignoto per la grave carenza di tamponi, la limitata incidenza del virus appare a molti una buona notizia solo in apparenza. «Ci tengono in casa per niente – commenta esasperato un uomo in fila con la sua mascherina fuori dal supermercato –. L’anno scorso nello stesso periodo c’erano il triplo dei morti negli ospedali!». Ma da settimane non si circola più con le auto, che da sempre sono il vero serial killer nel paese, si è tentati di rispondergli. Tuttavia questo sfogo amaro, diffuso nelle strade come sui social e nelle menti di tutti, mette bene in luce il vero danno prodotto dalla crisi in corso in molti paesi del Maghreb: certo non quello sanitario, ipotetico e potenzialmente imminente, bensì quello economico generato dalle misure per contenerlo, immediato e inequivocabile. I sacrifici sono indispensabili, ma la medicina sta facendo peggio della malattia.
 
Sostegno allo Stivale
L’impatto socio-economico delle misure di confinamento preventivo, imposte dal governo del neoeletto presidente della repubblica Kaïs Saïed e spiegato da lui stesso in diretta televisiva alla nazione il 20 marzo, è stato devastante. Allora, pur con soli 38 casi di infezione, la Tunisia ha fatto tempestivamente tesoro dell’esempio dell’Italia, suo dirimpettaio mediterraneo, osservato con attenzione fin da febbraio anche grazie alla grande diffusione dei nostri canali televisivi. Né è mancato un sostegno allo Stivale in difficoltà: fra le delegazioni straniere di medici giunti a sostegno delle terapie intensive italiane, orgogliosi della loro bandiera alla discesa dell’aereo, non è mancata quella tunisina. Come in Italia, sono stati imposti il totale confinamento in tutto il territorio, l’obbligo di rimanere a casa e il divieto di spostamento salvo estrema e vitale necessità, la chiusura degli spazi aerei, la chiusura dei luoghi di lavoro e dei gradi supermercati, l’apertura limitata solo dei negozi di quartiere, e la quarantena obbligatoria per i rimpatriati. I servizi di sicurezza e di salute sono stati riorganizzati e garantiti sotto un rafforzato controllo di polizia e militari, molti medici e infermieri in pensione sono stati richiamati in servizio, il coprifuoco è stato istituito dalle 16 alle 6.
L’obiettivo era soprattutto rassicurare la cittadinanza, data l’eccezionalità del momento, ma il paese non ha mai vissuto una simile emergenza, e nessuno sapeva esattamente come comportarsi. Nella fase preparatoria, le reazioni dei tunisini sono state le più diversificate: in generale, una grande quota di paura e ansia ha inevitabilmente preceduto l’introduzione delle misure, anche se non sono mancati sporadici comportamenti incoscienti di sottovalutazione, le immancabili ipotesi complottistiche, o anche stoico fatalismo.
 
Persistenti disuguaglianze
Paese geograficamente africano, la Tunisia è la polena di un continente rivolta a un’Europa alla quale per molti aspetti assomiglia. Il 38,2% della popolazione ha meno di 24 anni e il 9% più di 65, per un’età media di 33 anni e un’aspettativa di vita di 76. Con 2 figli per donna, nel primo paese africano a introdurre negli anni Sessanta un programma di pianificazione familiare la mortalità materna si ferma a 43 parti su 100 mila e quella infantile a 11 su 1.000. Il 98% della popolazione ha accesso all’acqua potabile e il 91% ai servizi igienici. Anche la sanità sembra mediamente funzionante, assorbendo il 7% della spesa nazionale, e contando su 1,3 medici e 2,2 posti letto per 1.000 abitanti.
Dati di un paese che ha affrontato il coronavirus con la legittima inquietudine di un possibile sovraccarico delle terapie intensive, ma ben più attrezzato di altri nella stessa regione. La realtà, però, è costituita anche da elementi tutt’altro che tranquillizzanti, e nasconde abbandono, disuguaglianza e povertà, frutto delle preesistenti debolezze strutturali del paese, acuite dalla crisi sanitaria.
 
Primi i mendicanti, poi le famiglie 
«Non vorrei essere al posto del Presidente stasera: deve scegliere chi far morire fra i malati di Coronavirus e i poveri cronici che non mangeranno fin da subito», aveva detto davanti alla tv, la sera del discorso di Kaïs Saïed, un’operatrice di un’organizzazione internazionale a Tunisi. Commento asciutto, ma non insensato. Il paese si è fermato di colpo per due settimane, alle quali ne sono seguite altre due, poi di nuovo altre due. Ma se i rischi di contagio sono egualmente distribuiti tra i diversi ceti sociali, le misure di tutela erogate sulla base della cittadinanza mettono più a rischio i diritti di alcune fasce particolarmente vulnerabili, come rifugiati, richiedenti asilo, migranti, lavoratori informali, detenuti, mendicanti, anziani soli, persone disabili.
Molte le conseguenze sul breve periodo. I primi a soffrirne, fin dal primo giorno, sono stati i numerosi mendicati delle medine delle grandi città, spesso malati o anziani, che vivono della generosità altrui per le strade affollate o dei resti della spesa dei passanti: fame e abbandono li hanno colti immediatamente. Ma ben presto tutto il resto della società si è trovato vittima di problemi simili: tunisini e migranti, chi vive del proprio lavoro quotidiano ha conosciuto problemi mai sperimentati, anche la fame. Cantieri e negozi chiusi hanno determinato l’interruzione istantanea del reddito, con conseguenze immediate sulla spesa quotidiana per cibo e medicine.
Consapevole del rischio concreto che la tenuta sociale corre a causa delle misure sanitarie, il governo ha provveduto al sostegno delle fasce più deboli, soprattutto attraverso l’ampliamento delle tradizionali elargizioni a indigenti e pensionati, per mezzo di carte sociali e buoni per la spesa. Si è trattato prevalentemente di sostegni in natura, in genere pacchi con generi di prima necessità. Nei quartieri più poveri le famiglie hanno chiesto aiuto già dalla prima settimana: persone adulte e in salute, ma anche anziani soli che non possono spostarsi, e che se anche potessero non troverebbero negozi aperti vicini a loro. Tanti anche i disoccupati e le madri sole che hanno allungato le liste del bisogno. L'aiuto finanziario è stato programmato per le famiglie più povere: lo stato ha stanziato in totale 150 milioni di dinari, secondo l’annuncio del capo del governo, Elyes Fakhfakh. Un totale di 623 mila famiglie con reddito limitato e irregolare beneficeranno dell’aiuto diretto di 200 dinari (circa 70 euro); sostegni simili sono previsti anche per 260 mila famiglie con tessera sanitaria aventi figli, persone anziane o con disabilità a carico. È prevista anche la distribuzione di elettricità e acqua potabile per le famiglie a reddito limitato, rimaste sprovviste a causa del mancato pagamento delle bollette. Un sostegno è arrivato persino per i senzatetto, collocati in centri di accoglienza. Anche le misure tese a salvaguardare i posti di lavoro non sono mancate, con finanziamenti eccezionali sotto forma di bonus alle aziende, e il rinvio del pagamento dei crediti bancari per i salari più bassi. Le aziende beneficeranno anche del differimento dei pagamenti fiscali e dei debiti bancari, oltre a un’amnistia fiscale. Aiuti di vitale importanza, ma lontani dal risolvere le difficoltà in cui i tunisini si trovano oggi.
 
Migranti, concreto rischio
Queste misure sono rimaste però limitate alla sola cittadinanza. Particolarmente difficile si è invece rivelata la situazione di migranti e rifugiati. La Tunisia è da anni un crocevia dei flussi migratori dall’Africa, come paese di provenienza, destinazione e transito. È soprattutto meta di giovani subsahariani, che nessuno può contare con esattezza: i dati ufficiali (dell’Om) parlano di almeno 60 mila presenze, ma il numero dei migranti in condizione di irregolarità rimane ignoto. Solitamente esclusi da molte delle misure prese a beneficio dei cittadini tunisini, migliaia di stranieri, soprattutto ivoriani, lavoratori occasionali nella ristorazione, nei cantieri e nelle case, si sono di colpo trovati in seria difficoltà. La possibilità di essere esclusi, più o meno legalmente, dall’erogazione di cure sanitarie a causa della condizione di irregolarità, unitamente a quella di essere sfrattati dai propri alloggi perché impossibilitati a pagare gli affitti, rappresenta un concreto rischio anche sanitario per la comunità.
Preoccupa anche la sospensione momentanea, o la netta riduzione dei servizi, che le associazioni della società civile solitamente erogano per le persone migranti. Sin dall’inizio il Comité National de Gestion de l’Aide aux personnes migrantes en Tunisie ha fortemente denunciato il rischio che gli irregolari potessero reagire con un incremento delle fughe per mare verso l’Europa, in assenza di valide alternative, con un’impennata della migrazione e del traffico di esseri umani. Per loro il governo ha sospeso le penalità delle irregolarità o li ha esonerati del tutto, mentre la cittadinanza tunisina ha mostrato una grande solidarietà attraverso l’organizzazione di collette. «Ma non basta – commenta una suora volontaria in Caritas Tunisia –: le liste sono lunghissime e il bisogno supera sempre di molto l’aiuto possibile». 
 
Tensioni in carcere. E in città
Nel paese nordafricano, nelle settimane di blocco, sono stati molti gli episodi di nervosismo e tensione urbana, non senza scontri con le forze dell’ordine. In particolare, in alcune città si è arrivati all’uso di lacrimogeni in occasione delle proteste, in violazione del coprifuoco, causate dalle presunte inadeguatezze dei luoghi messi a disposizione per le quarantene obbligatorie. Anche far rispettare pienamente il coprifuoco è stato in alcuni casi problematico: da Medenine a Gerba, come nella stessa capitale Tunisi, si è assistito a violazioni diffuse, dettate spesso dal bisogno, o dalla semplice negligenza. Le forze di polizia, molto presenti, hanno spesso dovuto imporre l’ordine, anche con mezzi inediti: non è raro imbattersi, lungo le principali arterie deserte di Tunisi, in avveniristici robot collegati alla centrale di polizia, che fermano i passanti chiedendo i documenti e ordinando loro di tornare a casa. Spettacoli inediti, per situazioni mai affrontate.
Molte anche le tensioni, dettate soprattutto dalla psicosi, dentro le carceri. Fin dall’inizio i controlli per gli ingressi, anche per ragioni assistenziali, si sono fatti molto più rigidi: riduzione delle visite e del numero dei visitatori, isolamento dei nuovi detenuti, rispetto delle distanze. Secondo fonti governative, le drastiche misure introdotte hanno funzionato, non essendo stati registrati, sino a fine aprile, casi nelle carceri. Tuttavia, come misura precauzionale, il Presidente della repubblica ha graziato alcune migliaia di detenuti, allo scopo di alleggerire un sovraffollamento potenzialmente pericoloso.
Molti indicatori segnalano anche un importante impatto psicologico, associato a quello economico. Soprattutto nelle periferie delle città, i confinamenti si sono svolti in contesti famigliari già precedentemente toccati da pesanti limitazioni economiche e soprattutto dalla disoccupazione prolungata (la disoccupazione ufficiale in Tunisia fra i 15 e i 24 anni è al 38,6%, e questo in riferimento al solo settore dell’economia formale, che rappresenta il 46% dell’economia totale). A ciò si sono aggiunte le difficoltà di provvedere ai bisogni elementari di salute e nutrimento, con un intuibile aggravarsi di situazioni di conflitto, esaurimento nervoso e stress. In netto aumento sono anche i fenomeni di violenza sulle donne e sui bambini: secondo alcuni dati, si sarebbero moltiplicati per cinque in due settimane. Il governo è dovuto intervenire, creando centri per separare i membri delle famiglie più in crisi.
L’alleggerimento delle misure era previsto per il 4 maggio. La “fase 2” era attesa, ma spaventa: si teme una ripresa lenta, che non avverrà in tempi brevi. I timori sono rivolti soprattutto alle pesanti ricadute economiche per imprese e famiglie. Tutta la catena produttiva, dal settore estrattivo a quello edilizio, è bloccata e gli strascichi della paralisi saranno duraturi. Alla vigilia della stagione estiva, il settore che da solo contribuisce al Pil per il 7%, cioè il turismo, minaccia di essere pesantemente afflitto sul medio e lungo periodo, sia per la persistente chiusura dei paesi da cui provengono tradizionalmente molti visitatori, sia per l’incipiente recessione mondiale, dopo un anno 2019 che aveva visto, per la prima volta dal 2011, una rilevante ripresa in attivo del settore.
Sul fronte produttivo e commerciale si annuncia un periodo di recessione ancora peggiore di quello del 2008. In Tunisia, l’80% delle esportazioni e il 63% delle importazioni è legato all’Europa, soprattutto Italia e Francia. Le misure fin qui adottate dal governo, come l’immissione di liquidità, possono far fronte ad alcune delle esigenze quotidiane delle famiglie nella fase più acuta del bisogno, ma provocheranno a loro volta un aggravamento dell’inflazione e un incremento del debito pubblico, due problemi rilevanti già prima del virus. 
Alla fine di questa crisi se ne intravvede già un’altra, forse più difficile ancora. Si aspetta con inquietudine la fine di quello che sarà ricordato come il Ramadan del virus, e l’inizio della nuova normalità post-Covid19. Che nessuno vede rosea.
 
Federico Mazzarella