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L’uragano di voci, il frigorifero nella testa   versione testuale
16 giugno 2020

Da sempre mi accompagna il ronzio di questo frigorifero vecchio. Ma a casa nostra non abbiamo mai avuto un frigorifero.
E da tanto mi canta le canzoni la voce dolce della mamma che mi culla nelle notti buie e mi tiene compagnia senza sosta nei giorni che esplodono di luce. Ma la mamma se n’è volata via da così tanto, che solo le orecchie la ricordano ancora.
Qualche volta si affacciano sulla soglia, senza bussare, senza un permesso, urla profonde che mi ordinano di fare questo e quello, e poi mi picchiano se non lo faccio, e tanto lo faccio sempre nel modo sbagliato, e allora urlano ancora e ancora e ancora… e allora mi rannicchio nell’angolo di pavimento più nero e aspetto. Loro si stufano di aspettare, devono andare a violentare altre menti, e così sento di nuovo più forte la voce di mamma. E dopo mi alzo, nella mia stessa urina, le braccia graffiate. Le voci che urlano lasciano sempre dei segni, mi incidono le braccia con le mie stesse unghie, usano i miei pugni per colpirmi alla testa. E sbattendo la porta mi abbaiano che non ci sono mai state.
Da più di un mese le voci tornano ogni giorno e sempre più spesso. Prima al Centro si faceva sentire tanto il canto di mamma, quando davo l’acqua alle piante, quando facevamo la ginnastica con suor Nancy o quando suor Leena ci insegnava a cucinare. Anche il percorso da casa al Centro era così bello: il furgone bianco di Hector e noi tutti a raccontarci le storie, a scherzare, o la mano di Kevin che di nascosto carezzava la mia… allora si che mamma cantava felice!
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La pandemia da Covid-19 ha causato, in tutto il mondo, oltre a morte, al collasso dei sistemi sanitari, a invalidità e pesanti restrizioni alle libertà sociali e individuali, anche l’aggravarsi delle condizioni di vita dei soggetti più deboli della società. I piccoli produttori, i lavoratori precari o non regolari, gli immigrati, le persone con patologie pregresse, le persone con disabilità, i senza dimora, le donne vittime di violenza domestica, i minori soli e molti altri soggetti deboli hanno sofferto pesantemente la chiusura dei paesi, il blocco delle economie informali e la mancanza dei servizi, spesso – in alcune aree del mondo – già deboli o inesistenti.
Anche le persone affette da patologie mentali o disabilità psichiche hanno visto le proprie condizioni aggravarsi e dovuto subire la diminuzione spesso drastica dei servizi di supporto, il mancato accesso ai farmaci o alle visite specialistiche, il deteriorarsi del cuscinetto sociale d’intorno.
Oltre ai malati psichici già diagnosticati, moltissime persone, a causa della condizione di lockdown o dello stress generato dalla paura diffusa per il contagio, hanno sviluppato sintomi di natura psichica da lievi a molto seri, e necessitano anch’essi di un aiuto specialistico.
Ma se in Occidente, o almeno in molti paesi dell’Occidente, i servizi sanitari pubblici sono stati in grado di contenere la problematica o le persone hanno avuto accesso, grazie a una certa stabilità reddituale, ai servizi privati, in molti paesi emergenti la situazione è precipitata senza controllo.
Un’indagine condotta dalla Societá indiana di psichiatria ha rilevato per esempio che in India le patologie mentali, solo nel primo mese di chiusura da pandemia, sono aumentate del 20%. E il numero si riferisce solo ai casi riportati ufficialmente o grazie all’indagine, ma si sa che molti di essi restano non-diagnosticati o non identificati, magari nascosti nelle immense e confusive metropoli indiane, o nei villaggi sperduti del subcontinente.
La situazione diventa ancora più seria per le persone o i gruppi sociali che, in tutta l’Asia, vivono già da anni situazioni di forte tensione politica o militare, e di conseguenza anche emotiva. Si pensi ad esempio ai profughi Rohingya, ammassati nel grandissimo campo profughi di Cox Bazar in Bagladesh, o alle popolazioni del Kashmir, da anni costrette a coprifuoco, violenze, atti di guerra e pressioni psicologiche di ogni tipo.
«Il Covid-19 non ha solo dato il via a una crisi sanitaria in senso fisico, ma sta attivando anche una crisi in termini di salute mentale. Molti migranti o rifugiati sono estremamente resilienti e sono in grado di andare avanti nonostante abbiano vissuto e fatto esperienza diretta di violenze e persecuzioni, ma la loro capacità di resistere sono ora appare tirata ai limiti massimi», chiosa Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. 
 
Al Centro le punture non le facevano più
Adesso siamo qui, papà, io e le sette, otto persone che vengono a farci visita ogni giorno. Papà un tempo non ne vedeva nessuna, adesso mi ha detto che le vede anche lui. Ma non ci parla. Forse è arrabbiato ancora per quella volta che la corda appesa al ramo si è rapita il respiro di mamma. Sono vent’anni che è triste e scuro. Ma io sorrido sempre perché la mia testa canta con voce dolcissima.
Ora, dice il televisore dei vicini, dobbiamo stare distanti, non toccarci e tutti sono dispiaciuti.
Credevo che la tivù dicesse le cose importanti, speciali… da sempre qui tutti mi sono distanti. Solo al Centro mi toccano, suor Tilde mi accarezza anche. E poi c’è Kevin, che mi coccola le mani nelle sue.
Mi ha detto papà che per parecchio ancora il Centro sarà chiuso, che la mia amica Nina è stata portata in ospedale, che a Ritupon fanno di nuovo quelle iniezioni cattive, quelle che bruciano tanto e paralizzano il corpo, mentre la testa si perde nella nebbia fitta dei pensieri. Quando andavamo al Centro non le facevano più, le punture. Mi ha detto che Jacinta è stata mandata dai nonni al villaggio lontano, perché a casa morsicava i fratelli. Al villaggio potrà morsicare per ore la sua solitudine. 
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L’impossibilità di reperire i farmaci, durante il lockdown, è un elemento determinante per l’aggravarsi delle condizioni di salute dei malati mentali. E ciò è particolarmente vero nei paesi asiatici, in cui le regole della chiusura sono state e sono tanto rigide, quanto violentemente applicate.
Hanno fatto scalpore in Occidente – almeno fino alla vicenda di George Floyd – ma per nulla in Asia o in Africa le immagini di poliziotti indiani che picchiano violentemente con canne di bambù le persone uscite durante il lockdown dalle abitazioni o, nella maggior parte dei casi, in strada, trovandosi nel mezzo di un viaggio estenuante verso i villaggi di origine.
Ma episodi simili, non sempre isolati, si sono registrati anche in Indonesia, Bangladesh, Sri Lanka, Laos e in alcuni stati dell’Africa. Talvolta anche quando le ragioni per uscire erano comprovate dalla necessità di reperire farmaci molto importanti, tra cui quelli per le patologie psichiatriche, la risposta da parte delle istituzioni, rappresentate in strada dalle forze di sicurezza, è stata solamente repressiva: ciò ha non solo impedito l’assunzione di terapie farmacologiche necessarie, ma anche aggravato le patologie stesse.
Il “distanziamento sociale”, poi, ha fatto il resto. Pur essendo scientificamente evidente la necessità di un distanziamento fisico – e non per forza sociale! – per limitare il contagio da Covid-19, è altrettanto evidente e noto che molto spesso per persone affette da patologie psichiatriche o da forme di disabilità a esse correlate, la socialità e la fisicità sono elementi essenziali per il mantenimento dell’equilibrio mentale.
Lo sono, in realtà, e studi decennali lo dimostrano, per tutti noi: il contatto fisico amorevole o di cura facilita le connessioni sociali, genera serenità e felicità, aiuta la risoluzione dei problemi e stimola la ricerca di aiuto all’esterno, appunto nelle relazioni interpersonali. Ciò vale ancor di più per le persone – certo, non per tutte – affette da disturbi mentali. Ma il lockdown ha fatto chiudere centri di assistenza o strutture dedicate alla terapia occupazionale, privando di fatto gli utenti della socialità, che aiuta e rassicura. In aggiunta, ha innescato un meccanismo che pare durerà nel tempo: la distanza fisica diventa normalità e la vicinanza, di contro, è un atteggiamento da evitare e che mette ansia. Per soggetti di per sé da sempre emarginati e“tenuti a distanza”, questo significa isolamento ulteriore e segregazione più severa.
E se per una volta l’emergenza riguarda tutti e tutti soffriamo, in modalità diverse specificamente declinate dalle culture, ancora una volta pare che si sia persa l’occasione di apprendere nuove strategie di avvicinamento sociale, per controbilanciare il distanziamento fisico.
L’osservazione della realtà – per ora dati solidi in questo senso non sono disponibili – suggerisce che il riavvicinamento avviene secondo i pre-esistenti schemi di divisione sociale o, anzi, con maggiore rigidità e chiusura dei sistemi. In pratica, ciò significa maggiore difesa e protezione dentro ai gruppi, ma ancor più distanza ed esclusione dei gruppi diversi. Tra essi spiccano, tra altri non meno isolati, le persone con disabilità psichica o con storie pregresse e nuove di malattia mentale. Ma ciò che conta è che i malati, in Asia, sono spessi privati, nell’attuale situazione di pandemia, di due forme terapeutiche: quella farmacologica e quella della vicinanza fisica amorevole.
 
Il sottile confine tra resilienza e disperazione
Ma Kevin sta bene. Dondola senza sosta i suoi riccioli neri, lancia e riprende le sue occhiate furbe e saltellanti e forse tra i suoi pensieri affollati c’è spazio anche per me.
Io trovo sempre lo spazio per lui, anche tra queste urla profonde che ormai mi fanno visita sempre più spesso. Apro gli occhi nel mio angolo di pavimento più nero, osservo la tempesta delle voci allontanarsi scura all’orizzonte, carezzo le mie braccia segnate.
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L’incredibile resilienza di cui parlava Grandi in relazione ai profughi è una caratteristica anche delle moltissime persone emarginate dell’immenso continente asiatico: le condizioni di deprivazione stimolano, insieme a fattori genetici, di cure parentali e di personalità, la nascita di incredibili capacità di risposta e l’addestramento ad “andare avanti”, comunque e sempre.
La chiave sta nel non oltrepassare la sottilissima linea di confine tra resilienza e disperazione, tra “stimolo alla risoluzione creativa dei problemi” e “colpo di grazia”.
È dunque compito di ciascuno, ancor più in questa situazione comune, che solo apparentemente unisce tutti a uno stesso livello, creare cuscinetti sociali che, nella ripresa ormai imminente, offrano opportunità di contatto e vicinanza per chi resta, da sempre, qualche passo indietro.
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Apro gli occhi nel mio angolo di pavimento più nero, osservo la tempesta delle voci allontanarsi scura all’orizzonte, carezzo le mie braccia segnate.
E papà sempre li, in ginocchio, vicino, a pregare un Dio che, mi dice, risponde.
Mamma, intanto, continua a cantare un’altra canzone.
A lei l’urgano non fa paura. E sta.
 
Beppe Pedron