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Lunedì 22 Giugno 2020
Meno cure, meno lavoro, più violenze   versione testuale
22 giugno 2020

Lo attendevano tutti. Come il momento che avrebbe potuto determinare almeno una lieve riapertura. Invece, tutte le misure già in vigore sono state estese ancora fino a luglio. Il discorso che il presidente della repubblica, Uhuru Kenyatta, ha tenuto il 6 giugno 2020 ha deluso le speranze del Kenya. Che non riesce a fare decisivi progressi nella lotta al coronavirus, e deve rimanere blindato ancora per un po’.
In Kenya il primo caso di Covid-19 si è registrato venerdì 13 marzo, quando l’Organizzazione mondiale della sanità aveva dichiarato la pandemia già da due giorni. Immediatamente e gradualmente sono state introdotte misure restrittive e di prevenzione, fino a quando un decreto di Kenyatta ha imposto la chiusura degli spazi aerei, l’isolamento delle contee che registrano più casi, il divieto di riunione e assembramenti, il coprifuoco dalle 19 alle 5 di mattina, poi ridotto dalle 21 alle 4. Qualche settimana dopo, anche le frontiere via terra con Somalia e Tanzania sono state chiuse.
I casi, d’altronde, sono aumentati ogni giorno di più, come anche i test effettuati, ma la mortalità resta relativamente bassa, il 3% circa. Il 18 giugno è stato il giorno peggiore: più di 200 casi positivi nelle 24 ore, e la preoccupazione che è tornata a salire.
 
Tanta fame, poco distanziamento
Il Kenya ha provato a dare risposte sanitarie credibili alla crisi. Sono stati disposti test di massa e in alcune aree completamente gratuiti, ma rimane comunque un problema di approvvigionamento del materiale necessario, che rallenta moltissimo le indagini epidemiologiche e la risposta terapeutica. Gli esperti, da più parti, hanno ribadito che i dati sulla diffusione dell’epidemia sono da considerare con molta cautela, dal momento che è ancora limitato il numero di test effettuati su una popolazione di circa 48 milioni di persone. Anche la copertura geografica non è uniforme: i test si concentrano nelle aree più a rischio, come Mombasa, la capitale Nairobi e città lungo i confini nazionali (soprattutto con l'Uganda). Rimane comunque molto difficile fare una fotografia reale e dare prospettive di lungo termine.
Quello che è certo, è che il Covid-19 non ha avuto un risvolto solo sul piano sanitario, ma ha portato a uno sconvolgimento economico e sociale anche nel paese di riferimento dell’Africa orientale. Le misure di contenimento del contagio, pur necessarie, hanno avuto un rilevante impatto sulla vita quotidiana dei keniani. L’emergenza, anche qui, non è solo sanitaria, ma sta rendendo più evidenti tanti fattori di crisi che erano già presenti, contingenti o strutturali, come l’invasione delle locuste e i cambiamenti climatici. In più, nei mesi del lockdown si sono aggiunte anche alluvioni e frane, che hanno colpito diverse regioni.
Diverse facce, insomma, di un diffuso e permanente stato di emergenza. Prima di tutto, occorre sottolineare gli aspetti sociali ed economici. In Kenya, a causa dello stop dell’economia, sta aumentando sensibilmente il numero di famiglie che affrontano una crisi alimentare: la situazione non era rosea già prima ma ora le restrizioni alla circolazione e alla produzione rendono difficile l’attuazione anche dei diversi programmi nazionali e internazionali che provano a dare una risposta efficace a questo bisogno.
Già prima della crisi sanitaria, il 65% della popolazione totale viveva con circa 3 dollari al giorno, molti con anche meno. Nel 2019 si calcolava che i keniani in stato di malnutrizione fossero 133 milioni, ora si stima siano il doppio. I prezzi del cibo sono lievitati: uno degli alimenti di base per tutte le famiglie, il mais, aveva già registrato un aumento progressivo, fino all'11% in più, negli ultimi cinque anni, ma con il Covid-19 è schizzato ancora più in su, con un aumento ulteriore del 22% in pochi mesi.
Le difficoltà maggiori si registrano nelle aree urbane, dove le condizioni di vita peggiorano in termini di sovraffollamento, accesso ad acqua, sanità e servizi. Il 60% della popolazione della capitale, Nairobi, vive nelle baraccopoli, dove risulta difficile mantenere ogni distanziamento sociale, perché in baracche di pochi metri quadrati abitano moltissime persone in condizioni di estrema povertà. La fonte di reddito per moltissimi deriva dal lavoro occasionale e informale, e così le chiusure localizzate dei mercati, i rallentamenti delle catene di approvvigionamento alimentare, l'aumento dei prezzi dei beni primari e l'assenza dei pasti scolastici influiscono negativamente sull'accesso al cibo delle famiglie.
A inizio giugno, i quotidiani nazionali annunciavano che in pochi mesi almeno 1 milione di keniani ha perso un lavoro stabile. In molti casi, chi ha potuto mantenerlo usufruisce di ferie “forzate” non retribuite. E senza la possibilità di accedere ad ammortizzatori sociali, che semplicemente non esistono. I settori più colpiti sono l'educazione, la comunicazione, il turismo, l’ortofloricoltura. Il Kenya è uno dei maggiori esportatori di rose al mondo e nel settore fino allo scorso anno operavano direttamente 150 mila keniani e altri 500 mila indirettamente.
 
La polizia ha calcato la mano
Sotto il profilo sociale, gli effetti della chiusura e della limitazione di movimento hanno portato a un generalizzato aumento delle violenze, sia in casa sia in pubblico e sulle strade. I missionari che si occupano di minori non accompagnati e bambini di strada conoscono bene le storie di tanti ragazzi che scelgono di vivere in strada, invece di fare ritorno ogni sera in spazi angusti dove abusi, violenze e dipendenze sono all'ordine del giorno. Ora con il coprifuoco, l'isolamento e le accresciute difficoltà economiche, è ancora più difficile sentirsi “a casa”.
Anche le forze di polizia hanno calcato la mano, da più parti si sono alzate voci per denunciare violenze e soprusi, sin dai primissimi giorni del coprifuoco. Il buio delle periferie e delle baraccopoli non è amico, può rendere le strade e le case “terra di nessuno”. Molti sono stati severamente puniti perché stavano rientrando in ritardo allo scoccare del coprifuoco. A Mombasa, già il primo giorno di coprifuoco, molti non erano riusciti ad arrivare in tempo per l'ultimo traghetto che collega il centro città con Likoni, un quartiere sovrappopolato. La polizia non ha esitato a riportare l'ordine con la forza e i manganelli. Dopo alcune settimane le violenze sono esplose nelle baraccopoli vicino a Nairobi, a Korogocho. La programmata demolizione delle baracche, che sono casa per 4-5 mila persone, e del mercato informale, fonte di reddito per altrettanti keniani, non si è fermata. Le proteste della popolazione hanno visto la polizia reagire con idranti e proiettili. Come hanno raccontato i missionari comboniani che vivono nel quartiere da tantissimi anni, ora «la gente non ha dove stare e quando anche il mercato informale cessa, seppur garanzia di guadagni minimi, allora torna la fame». 
In quegli stessi luoghi, come in tante altre periferie delle megalopoli del mondo, il problema primario non è stato comprendere il pericolo di questo virus. Piuttosto, difficile – se non impossibile – si è rivelato avere i mezzi e le condizioni per rispettare le misure anti-contagio. L'accesso all'acqua per lavarsi le mani non è scontato, i servizi igienici non sono garantiti. L'acqua si deve comprare e può essere un lusso perché la si deve usare per bere, per cucinare e per l'igiene personale e di casa. Non si può sprecare e così bisogna darsi delle priorità. Così anche per il sapone: magari si preferisce spendere quel poco per comprare del cibo, come racconta da Nairobi un medico italiano (vedi blog La forza di Ippocrate del dottor Gianfranco Morino).
Da un'indagine condotta da Amref in Kenya su un campione rappresentativo di giovani, emerge chiaramente che il 90% ha ben compreso quali siano i sintomi del Covid-19 e quali le misure di prevenzione da seguire, ma altrettanti, se non maggiori, appaiono i timori per gli effetti di tali misure, come l’isolamento. Infatti, il 50% degli intervistati ha dichiarato di non avere mezzi per auto-isolarsi in caso di positività e che i bisogni emergenti e urgenti rimangono comunque, nell'immediato, cibo (93%), acqua (62%) e denaro contante (54%).
 
Scuole chiuse, i bambini saltano il pasto
In Kenya intanto le scuole sono chiuse, forse riapriranno a settembre. Il problema è di carattere educativo, perché la didattica a distanza resta un miraggio. Ma la vera preoccupazione per moltissime famiglie è un’altra. Non è un mistero, infatti, che la maggior parte dei bambini va a scuola per avere assicurato almeno un pasto al giorno. Questo ha aumentato la frequenza scolastica negli ultimi decenni. Con le scuole chiuse, molti sono rientrati nei villaggi. Dove si potrà trovare ciò che manca? Ancora una volta per strada
Dal punto di vista sanitario, come in tanti paesi del mondo, anche il Kenya non era pronto a far fronte ad una emergenza simile. Fin dalle primissime ore è stato chiaro che il sistema sanitario, che non è gratuito, aveva lacune tali da non poter reggere una pressione elevata.
La preoccupazione riguarda soprattutto la tutela della salute di tutti, a cominciare dai più poveri. Il Kenya era un punto di riferimento per la regione, da molti paesi vicini chi se lo poteva permettere arrivava a farsi curare a Nairobi o nelle altre città keniane. A marzo, però, i posti in terapia intensiva erano circa 150, di cui già due terzi occupati da pazienti in cura per altre patologie o incidenti stradali. Non tutte le contee potevano garantire un posto in terapia intensiva. Allo stesso tempo il problema era avere a disposizione sufficiente personale sanitario specializzato. Ora, con il passare dei mesi, i posti in terapia intensiva sono aumentati fino a circa 500 e il presidente Kenyatta ha annunciato un piano per attrezzare tutte le contee in poco tempo. Sotto questo punto di vista si sta migliorando di poco, ma molto velocemente. Purtroppo, ancora molto si dovrà fare per garantire un servizio di base accessibile a tutti.
 
Drammatico calo delle vaccinazioni
Ad ogni modo, se tra marzo e aprile ospedali e centri territoriali di salute hanno registrato un drastico crollo negli accessi di persone affette da patologie differenti dal Covid, da poche settimane si registra un loro lento ritorno. Tra gli operatori del settore rimane però grande preoccupazione per i piccoli ma decisivi successi che faticosamente si erano ottenuti, soprattutto sui versanti delle cure materno-infantili e delle vaccinazioni. Ai primi di giugno, alcuni dati pubblicati sui quotidiani nazionali raccontavano che solo in un ospedale di Nairobi le vaccinazioni erano già calate del 13% rispetto allo stesso periodo del 2019, gli accessi per emergenze pediatriche del 22%. Secondo un documento pubblicato dall'Institute of Econmic Affairs le contee più popolate e trafficate del Kenya (Nairobi, Mombasa, Nakuru e Kiambu) sono anche le più vulnerabili.
In questo contesto, sembra impossibile immaginare qualsiasi programma di tracciamento dei contatti, anche affidandosi agli oltre 70 mila volontari di comunità per la salute esistenti nel paese. Negli scorsi mesi, per problemi anche economici derivati dalla crisi, molti centri di salute territoriali hanno dovuto lasciare a casa parte del personale sanitario, così anche gli screening di base e i servizi comunitari hanno dovuto rallentare. 
Si registra, insomma, un’inversione di tendenza nell'accesso ai centri sanitari: a determinarla sono state sicuramente l'incertezza, la paura del contagio e dello stigma sociale che ne deriva, così come la crisi economica. Non ci sono più soldi per curarsi, anche le professioni ben remunerate sono in crisi. Il Covid colpisce duro, anche chi non contrae il virus.
 
Nicoletta Sabbetti