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Cox Bazar respira a fatica. E non è una novità   versione testuale
6 luglio 2020

Non é una novità respirare poco, per Nur Akter.
Ora la mascherina che tutti dovrebbero portare fa solo sentire maggiormente la cosa, fa solo mancare un po’ il fiato. Ma per lei, e per decine di migliaia di altri, a Cox Bazar, non c’è molta differenza con le condizioni normali.
Quando la baracca è piena di gente e per girarsi la notte si attende che anche quello a fianco si giri, allora ci si sente soffocare.
Quando alla fila per l’acqua il caldo cocente stordisce e rende il piccolo rubinetto laggiù un miraggio, allora ci si sente soffocare.
E anche quando la pioggia cade così violenta da sollevare i tendoni, e si esce a legare le corse, a fissare le lamiere o a recuperare il pentolame nelle strade diventate fiumi di fango, allora ci si sente soffocare. 
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A Cox Bazar c’è il campo profughi più grande al mondo. Ospita da decenni, ma con un’impennata negli ultimi 4 anni, i rifugiati in fuga dal Myanmar, a causa delle violenze delle truppe governative contro una etnia del paese, i Rohingya. Questa popolazione in patria non solo è deprivata dei diritti fondamentali, relegata in aree specifiche con divieto di accesso a personale non-militare, punita duramente per il suo organizzarsi – talvolta anche in forme violente – per rivendicare i diritti di base, violentata negli individui e socialmente, ma vede negato il diritto all’identità e all’esistenza. L’etnia, infatti, non è riconosciuta in Myanmar. E addirittura il nome “Rohingya” non può essere usato per identificare i suoi componenti. 
Nel 2017 le violenze contro il gruppo etnico, ad opera dell’esercito regolare birmano e in seguito ad attentati terroristici contro la polizia locale, hanno portato all’uccisione di un numero non definito di persone, comunque tra i 6.500 e i 10 mila. Ciò ha causato un esodo di massa verso il vicino Bangladesh, e l’afflusso di 600 mila persone nel campo di Cox Bazar.
Al conto tra fuggiti e arrivati al campo vanno sottratte le migliaia di persone che sono morte durante il tragitto.
 
Mustakima, diagnosi incerta
“L’emittente radio” di Cox Bazar, un canale fondamentale di comunicazione per la popolazione del campo, da settimane intervalla i programmi ormai diventati usuali con informazioni e annunci relativi al virus.
Raccomanda di stare lontani, di lavarsi spesso le mani, di usare le mascherine.
Restare distanti è possibile solo nelle baracche che fungono da uffici di collegamento del governo e delle agenzie umanitarie. Fuori di esse la distanza massima è spesso sotto ai trenta centimetri. Lavarsi le mani è un miraggio in buona parte del campo, perché l’acqua manca e il sapone lo si vede quando va bene una volta al giorno. E usare le mascherine sarebbe un ottimo esercizio di educazione sanitaria sociale, ma non è un mezzo efficace, dal momento che le stesse non ci sono in numero sufficiente, e dunque vengono usate per settimane senza la possibilità di essere sostituite e diventano – soprattutto per le donne – solo un elemento in più aggiunto al velo e agli abiti indossati a strati sovrapposti, nonché un fattore di scomodità quando si usano i servizi igienici collettivi.
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Il marito di Nur Akter, Mohib, collabora con un’organizzazione non governativa nella gestione di un settore del campo. Conosce le situazioni in cui vivono diverse famiglie, visita le tende e mantiene un registro dei sintomi influenzali riconducibili al Covid.
«Non ci pare che le cose siano di molto cambiate rispetto a mesi fa», racconta mentre annota i sintomi che Mustakima, una ragazzina di 12 anni, gli riferisce. «Qui con il caldo torrido o con le piogge violentissime la situazione non è migliore, anzi… registriamo sempre febbri, tosse, dolori articolari ed è quindi molto difficile capire adesso se ci troviamo davanti a sintomi di Covid-19, o a semplici altre influenze virali».
Nel vastissimo campo, sinora, sono stati fatti solo qualche centinaio di tamponi, una cifra irrisoria rispetto alla popolazione e al rischio elevatissimo di epidemia.
Ma nel resto del Bangladesh le cose non vanno molto meglio. Il paese, dopo un primo momento di apparente controllo della situazione, sta vivendo un aumento continuo dei contagi e anche dei decessi, con una crescita di circa 4 mila positivi al giorno.
Il popoloso paese asiatico fatica a pensare risposte efficaci, sia per la povertà endemica della popolazione, ma anche per la scarsità di mezzi a disposizione del governo. Il quale ha stanziato un fondo consistente per fornire prestiti ai poveri al fine di prevenire la loro discesa in una condizione di povertà estrema. Ma i fondi non sono sufficienti, e del resto una buona parte della popolazione già viveva in estrema povertà.
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«Condanniamo l’irresponsabilità del governo del nostro paese, che non riesce a gestire la situazione –commenta Mohamed Taifur Rahman Shah, presidente dell’associazione Italbangla –. Il governo del Bangladesh è irresponsabile e non riesce a dare risposte: non ci sono tutele per la salute, cure mediche: è il far west».
Ma il paese, anche in condizioni di “normalità sanitaria”, offre una risposta insufficiente ai bisogni della popolazione, con solo 130 letti di terapia intensiva nell’intero territorio nazionale (per 161 milioni di abitanti!) e una presenza limitata di medici specialisti.
Data la natura della pandemia molte agenzie, tra cui quelle delle Nazioni Unite, si sono mobilitate per supportare la risposta logistica, ma anche per aiutare economicamente il governo.
Ingenti prestiti, da parte di molte istituzioni transnazionali, stanno cercando di arginare il disastro sanitario, economico e sociale, supportando la risposta medica all’epidemia, la prevenzione della stessa, e cercando di aiutare le fasce più deboli a sopravvivere.
 
Rakeem senza caramelle
Rakeem è tornato dal Qatar da due settimane. Lui era l’unica fonte di sostentamento per la famiglia, composta da moglie, tre figli, madre e padre anziani. Ora aspetta sulla porta di casa, a Khulna. Non si può ancora uscire dall’alloggio, e lui può solo aspettare, guardando il vuoto delle strade, le mucche solitarie che si aggirano padrone delle vie, i figli che lo osservano in attesa di novità.
Ma le novità non ci saranno. O comunque non le novità che tutti si attendono, di solito, al suo ritorno: regali, caramelle, dolciumi, qualche soldo per migliorare la casa. Ora l’unica novità è l’incertezza del domani. Il lavoro a Khulna non c’è. E nemmeno in Qatar si potrà tornare presto.
Rakeem è fortunato, però: si è risparmiato la disavventura di Prodip, che si è ammalato di Covid. Era con lui sul volo di ritorno e adesso l’amico è nel centro sanitario delle suore; pare che se la caverà.
Nella cittadina dove lavoravano, in Qatar, lui e molti altri sono stati lasciati soli, in case fatiscenti, assembrati in stanzoni con anche 12 letti, senza indicazioni su cosa fare e senza mascherine. Il loro stato di lavoratori immigrati non prevede l’assistenza sanitaria, cosi chi tossiva è rimasto con chi sembrava sano, e anche i sani si sono ammalati. E solo l’intervento ruvido dei funzionari dell’ambasciata ha permesso il rimpatrio.
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Le rimesse degli emigrati, anche in Bangladesh, come in molti altri paesi dell’Area asiatica, sono tra le voci principali di ricchezza e l’emergenza sanitaria mondiale ha raso al suolo le speranze di moltissimi lavoratori emigrati e delle loro famiglie.
Lo scorso anno circa 700 mila persone hanno lasciato il Bangladesh per lavorare all’estero. E ora decine di migliaia di esse stanno rientrando, in condizioni spesso disperate, senza un soldo in tasca, senza la possibilità reale di un futuro dignitoso.
Il governo ha istituito un fondo proprio per i migranti di ritorno, al fine di supportarli nella creazione di proprie imprese: il fondo però è insufficiente. E non sarà un’iniziativa facile, né sicura, trasformare lavoratori generici non formati in imprenditori di sé stessi.
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Mentre Nur Akter accende un altro fuoco per la cena, suo marito sorride contento. La notizia è confermata: verrà istituita una piccola terapia intensiva con 10 letti di rianimazione all’interno del campo di Cox Bazar.
A volte la speranza si presenta sotto forma di letti, tubi di plastica, macchine strane e bombole d’ossigeno, e si materializza anche quando ci si trova all’ultimo posto, nel grottesco ontologico girare dei cerchi concentrici dell’emarginazione.
 
Beppe Pedron