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Lunedì 6 Luglio 2020
Un altro virus, che umilia e rende scalzi   versione testuale
7 luglio 2020

«I nostri ospiti rifiutano le scarpe, quando gliele offriamo. E sapete perché? Per un semplice e sconfortante motivo: hanno i piedi talmente malconci, che non riescono più a calzarle». Marco Aliotta, responsabile dell'Osservatorio della Caritas di Trieste, organismo che coordina i centri di isolamento fiduciario in cui i migranti che hanno attraversato i paesi dell’Europa dell’Est vengono inviati per gli accertamenti anti-Covid.
In quattro mesi di attività, da quando la pandemia ha avuto inizio, nessuno dei richiedenti asilo intercettati alla frontiera e accolto nelle strutture gestite dall’organismo diocesano è risultato contagioso. Gli accertamenti medici hanno invece rivelato una diffusa presenza, tra gli ospiti, di fiacche, vesciche, tagli sulle piante dei piedi. Quelle ferite raccontano storie che sembrano uscite da cronache di altri tempi, ma sono anche, in diversi casi, le prove di soprusi, violenze, umiliazioni subite. Sono una vergogna che non vogliamo vedere. E dimostrano che continua a essere circolante, nel cuore d’Europa, anche un altro virus. Dal quale dovremmo guardarci.
 
Forti tensioni ai confini
Benché anche durante la pandemia lungo la cosiddetta “Rotta balcanica” non si sia mai interrotto il flusso di migranti, con la fine del lockdown sono aumentati gli arrivi a Trieste, la prima città italiana che i potenziali richiedenti protezione internazionale incontrano lungo la via che dalla Grecia giunge sino a noi, attraverso i paesi dell’Europa orientale e balcanica.
Quelli che non vengono respinti indietro in Slovenia dalle nostre guardie di frontiera, in palese violazione del diritto all’asilo (secondo la denuncia dell’Associazione per gli studi giuridici Asgi e altre associazioni, tra cui la stessa Caritas), vengono sottoposti a un periodo di “isolamento fiduciario” in 4 strutture di accoglienza gestite da Fondazione Caritas Trieste e Ics (Consorzio italiano di solidarietà) per conto della Prefettura triestina. I centri per l'accoglienza dei migranti si trovano tra il capoluogo giuliano e il confine sloveno. Gli ospiti sono sottoposti, prima di essere affidati agli operatori sociali, ad accertamenti medici per verificare che non presentino sintomi riconducibili al Covid 19.
In base ai Flash Report che Caritas Trieste ha redatto dei mesi di marzo, aprile e maggio per monitorare lo stato di emergenza Covid-19 nella diocesi giuliana, sono state accolte, nei mesi in questione, rispettivamente 75, 207 e 630 persone e nessuno dei test effettuati ha dato esito positivo (in seguito, nemmeno a giugno). Sono al contrario emerse altre patologie, in parte riconducibili alle modalità del viaggio, in parte a qualcosa di ben più inquietante. «Sarebbe già scandaloso dover ammettere che nel XXI secolo c’è chi per chiedere asilo nella terra dei diritti che pretende di essere l’Europa deve sottoporsi a marce lungo sentieri impervi, ma dovrebbe farci inorridire che quel cammino c’è chi è costretto a compierlo a piedi nudi per alcuni tratti, a causa della crudeltà di chi rappresenta comunque le istituzioni», sottolinea Aliotta.
 
Scherniti dai militari croati
Mettendo insieme le testimonianze raccolte dai diversi operatori impegnati nell’accoglienza dei migranti lungo tutta la rotta, è possibile infatti ricostruire quello che accade. Coloro che giungono ai confini orientali dell’Italia in genere provengono da Pakistan e Afghanistan. Hanno lasciato i loro paesi di origine anche quattro anni prima e sono arrivati in Bosnia, dove hanno trovato riparo nei campi profughi, in genere di Bihac e Velika Kladusa. Da qui hanno cercato di passare in Croazia, primo paese della Ue che incontrano.
Il viaggio avviene generalmente di notte, attraverso sentieri in mezzo ai boschi, che si percorrono a piedi, scortati da qualcuno del posto, che dietro lauti pagamenti indica la strada. Ogni tentativo è però una scommessa, e spesso non si vince al primo colpo. Gli stessi migranti definiscono questa sfida con la sorte The Game, dimostrando una certa autoironia. Quando le guardie croate li intercettano, li rimandano indietro, ma per scoraggiarli dal ritentare nuovamente la fortuna, li costringono a togliersi le scarpe e gliele sequestrano. A quel punto, tra le risa di scherno dei militari, molti tornano indietro. Camminando scalzi per chilometri, molti si feriscono. Se provi il Game più volte, quando alla fine riesci a passare e arrivi dalla Slovenia in Italia, non è sorprendente che infilare una calzatura diventi un esercizio doloroso…
«Quando abbiamo fatto una valutazione sull'andamento dei progetti di accoglienza, abbiamo notato che alcune persone ci chiedevano sandali anziché scarpe chiuse – racconta Aliotta –. Abbiamo constatato che il problema risiedeva nel fatto che molte persone quelle scarpe non potevano più indossarle per la fatica. E, forse, la violenza di un viaggio che non si limita a deformare i piedi, ma lascia segni profondi». 
 
Francesco Chiavarini