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Non tante parole, ma le giuste parole   versione testuale
14 luglio 2020

Chiusi in casa. Ad abbeverarci di notizie sul nemico invisibile che imperversava fuori. Nei mesi più drammatici della pandemia, abbiamo registrato come forse mai prima lo straordinario potere e i temibili rischi della comunicazione nell’epoca digitale. Un ininterrotto, compulsivo flusso globale, capace di raggiungere e congiungere miliardi di individui isolati e distanziati, di renderli consapevoli della portata della sfida, e nello stesso tempo di far dilagare notizie infondate, adulterate, devianti. La Chiesa, fondata su una Buona Notizia fatta storia, ha dovuto misurarsi con un panorama mediatico in tumulto. Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana, riflette su cosa significa comunicare, informare e informarsi, per un cristiano, nel contesto di una sfida senza precedenti.
 
Dottor Corrado, l’Enciclopedia Treccani ha inserito nella lista dei neologismi 2020 il termine “infodemia”, connettendolo al sovraccarico di informazioni, sovente tarlate, generato dalla pandemia da Coronavirus. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità segnala e cerca di contrastare i rischi di tale “infodemia”, sia riguardo alla sovrabbondanza di messaggi, che rende difficoltoso risalire a fonti scientifiche attendibili, sia riguardo alla circolazione di fake news, notizie alterate ad arte. Il panorama italiano dell’informazione sull’epidemia, visto dall’osservatorio dell’Ufficio per le comunicazioni sociali della Cei, è confortante o scoraggiante?
È sicuramente un panorama “infodemico”, come sottolinea l’Organizzazione mondiale della sanità. Prima ancora che esprimere un giudizio su quanto visto e vissuto, bisogna riflettere sulla prospettiva bulimica cui siamo quotidianamente esposti a livello informativo. Restando sempre in questa metafora alimentare, si verifica un paradosso che porta a un cortocircuito: se c’è una bulimia di informazioni, c’è una sorta di anoressia di verifica e attendibilità delle fonti. Sia ben chiaro, non è tutto da buttar via, anzi… Il contesto in cui viviamo, profondamente segnato dalle innovazioni tecnologiche, condiziona in un certo senso – e non potrebbe essere altrimenti – la nostra vita, compresa anche la conoscenza di ciò che avviene. Ecco, allora, che al sovraccarico di informazioni, favorito dai nuovi media, corrisponde un disorientamento diffuso. «C’è bisogno di un’azione educativa più ampia – ha affermato papa Francesco all’ultima plenaria della Pontificia Accademia per la Vita –. Occorre maturare motivazioni forti per perseverare nella ricerca del bene comune, anche quando non ne deriva un immediato tornaconto». Sono parole che rilanciano l’impegno per una comunicazione attenta ai valori della trasparenza, della responsabilità, dell’imparzialità, della sicurezza e della privacy. Pilastri di cui anche il contesto italiano ha sicuramente bisogno. Ed è ciò che è più emerso in questo tempo di pandemia. 
 
L’epidemia ha sollecitato a fondo l’emotività di individui e collettività. Scatenando paure e ossessioni, ma innescando anche reazioni di coraggio e generosità. Una buona comunicazione come può farsi carico di questa emotività? Deve cercare di tendere a un registro puramente razionale e neutrale?
La comunicazione autentica passa dalla custodia e dalla cura dell’altro, dalla capacità di lasciarsi attraversare attivamente da ciò che è intorno a noi e che, in questo processo, diventa parte di noi. Lo abbiamo sperimentato in questi mesi: la comunicazione vera è testimonianza, è capacità di rinunciare a se stessi per far posto all'umanità che ci rende parte di un tutto. La bellezza e la fatica del pensare e del comunicare passano dalla custodia e dalla cura. Per questo è importante recuperare una comunicazione che vada oltre l’emotività del momento e costruisca percorsi di senso. Con una richiesta implicita: non servono tante parole, ma le giuste parole. Il registro deve essere “ecologico integrale”, ovvero che comprenda tutto l’uomo. Al riguardo, osserva il Papa nell’enciclica Laudato si’, viene chiesto uno sforzo affinché «tali mezzi si traducano in un nuovo sviluppo culturale dell’umanità e non in un deterioramento della sua ricchezza più profonda. La vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale» (n.47). 
 
C’è, dal punto di vista della Chiesa, un medium più adatto di altri a raccontare l’evoluzione dell’epidemia?
Non c’è una classifica dei media. Pensare di poterla stilare ci porterebbe fuori dalla storia. Ormai è un dato di fatto che tecnica e tecnologia coincidano. La separazione è superata e, come osservano i ricercatori, viviamo in una società completamente mediata. Tutto è medium. Basta osservare la nostra quotidianità. Dal mio punto di vista è richiesta oggi un grande professionalità: le informazioni sono tante, non tutte sono vagliate e verificate e non tutte sono notizie. In più, l’istantaneità dei modelli mediatici attuali deve essere coniugata con la profondità di una comunicazione vera e autentica, che sappia offrire chiavi di lettura non plagiate della realtà. Una sfida che interpella giornalisti e operatori della comunicazione.
 
La pandemia e le sue drammatiche conseguenze, sanitarie e socio-economiche, rappresentano una sfida per la fede, una minaccia per la speranza, un’opportunità di cimento per la carità. Quali sono state, in sintesi, le principali risposte che la Chiesa italiana, attraverso le sue pastorali, ha dato ai bisogni scaturiti dall’epidemia? E come sono state raccontate queste risposte dal sistema mediatico?
Responsabilità e prossimità: sono state queste le principali risposte della Chiesa italiana. La responsabilità è attenzione verso se stessi e gli altri, come salvaguardia di quel bene comune che è la salute, come condivisione di una fede radicata nella speranza e aperta alla carità. La prossimità è la testimonianza di una Chiesa-madre che a tavola ha sempre un posto in più da aggiungere, non solo per i suoi figli. È il “boccone del povero” che ha i tratti del Cristo sofferente. Tutte le risposte pastorali sono state mosse da questo doppio registro. Anche i diversi stanziamenti economici (oltre 200 milioni di euro), provenienti dai fondi dell’otto per mille che i cittadini destinano alla Chiesa cattolica, hanno trovato origine nella responsabilità e nella prossimità, generatrici di comunione. C’è stato un messaggio chiaro per tutti: occorre “fare squadra”, partendo dagli ultimi, puntando sulla solidarietà. Penso che anche il sistema mediatico, nella sua complessità, abbia colto la forza narrativa di tutto ciò, evidenziando al meglio la sua carica evangelica. È sempre la Buona Notizia che s’incarna nell’oggi della storia.
 
Anche la Chiesa italiana ha dovuto rivisitare a fondo contenuti e modi della propria comunicazione, in tempo di pandemia. A cominciare dalle Messe – che sono anche un veicolo di trasmissione di messaggi –, rimaste a lungo… senza pubblico. Su quali principi è stata impostata la comunicazione ecclesiale in questa dolorosa stagione?
Attorno all’essenza del messaggio: come dicevo, non servono tante parole, ma le giuste parole per comunicare. Nell’emergenza la comunicazione ecclesiale ha fatto tesoro della propria capacità progettuale e creativa. La progettualità è la capacità di guardare continuamente ai percorsi da intraprendere e di disegnare linee chiare per dare alle idee basi solide. In questa stagione dolorosa, tanti hanno osato, si sono messi in cammino, sono saliti sull’impalcatura… Forse, alle volte, questa era un po' traballante, ma lo sforzo ha rappresentato una pronta risposta. Ora è tempo di riflettere sulla capacità di guardare oltre le difficoltà. È l’orizzonte cui la comunicazione ecclesiale deve tendere. Insieme alla creatività, perché a volte c’è stata una interpretazione falsata, troppo sbilanciata sul “che cosa” fare e poco centrata sul “come” fare. È proprio in questo “come” che si svela l’animo, la passione, l’attenzione… In generale, il “come” non è meno importante del “che cosa”. Ripartire da progettualità e creatività è sicuramente un ottimo percorso per il futuro.
 
Che contributo può dare la comunicazione al rafforzamento di un’azione integrata e unitaria tra le diverse pastorali, quanto mai necessaria nel tempo dell’emergenza, cioè il tempo – per riprendere l’immagine di papa Francesco – in cui ci troviamo tutti su un’unica barca in tempesta, e scopriamo che possiamo salvarci solo tutti insieme?
La comunicazione può senza dubbio essere il collante o il motore per un’azione integrata e unitaria. Ancora oggi, molto spesso si pensa alla comunicazione come a qualcosa di accessorio o di pura tecnica. Invece, davvero questa può favorire la sintesi dei diversi ambiti pastorali, ma non solo. Il rischio è di continuare ad avere una visione chiusa e ripiegata su se stessi. In questo senso il n. 137 della Laudato si’ è illuminante: «Dal momento che tutto è intimamente relazionato e che gli attuali problemi richiedono uno sguardo che tenga conto di tutti gli aspetti della crisi mondiale, propongo di soffermarci adesso a riflettere sui diversi elementi di una ecologia integrale, che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali». La frammentarietà richiede di essere ricomposta dall’integralità dell’umano. La pandemia ci ha messi a nudo, ci ha spogliati delle nostre certezze. Nello stesso tempo, ci ha fatto capire quanto sia importante farsi prossimi all’altro che soffre. L’immagine della barca non è solo fisica ma anche esistenziale. Siamo tutti parte della stessa umanità!
 
Paolo Brivio