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Un tè con Y., che ci riproverà   versione testuale
26 novembre 2020

«Last year in Bogovadja camp!». Y., un ragazzo afgano di 17 anni, viaggia da solo. È uno tra i troppi minori non accompagnati che da anni attraversano le tante frontiere tra uno stato balcanico e l’altro, per provare a vincere il game: la sfida alle polizie e ai confini, nel tentativo di raggiungere la terra promessa, un paese dell’Unione europea – non importa quale – dove ricominciare la propria vita. Lontani da guerra, violenze, attentati, dittature. Vengono soprattutto da Afghanistan, Iraq, Siria, Iran, alcune regioni del Pakistan. Hanno abbandonato case e famiglie e come tanti prima di loro stanno attraversando la Rotta balcanica, un corridoio geografico in mano ai trafficanti, che sino al 2014 serviva principalmente per trasportare la droga dall’Afghanistan ai mercati europei e che dal 2015 è diventato uno dei principali canali migratori verso l’Europa.
Y. è in viaggio da più di due anni. Viene da Kabul. Di suo padre, insegnante, si sono perse le tracce dopo una retata e la madre ha deciso di far partire il figlio maschio per non farlo finire nelle mani dei talebani. Con uno zaino e pochi soldi in tasca, si è unito a un gruppo in partenza e attraverso Iran e Turchia ha raggiunto la Grecia. Aveva raccontato del suo viaggio rocambolesco davanti a una tazza di tè bollente, nel primo Social Cafè che Caritas e Ipsia hanno aperto nel 2017 a Bagovadja, in una delle decine di centri di accoglienza avviati negli ultimi 4 anni tra Grecia, Macedonia, Serbia e Bosnia Erzegovina con fondi dell’Unione europea. La Rotta balcanica è infatti stata chiusa nel marzo 2016, ma solamente sulla carta. Ancora oggi si continua ad assistere all’arrivo costante di famiglie, bambini, minori, uomini e donne in fuga. Semplicemente, sono cambiati e si adattano nuovi percorsi per chi fugge dai conflitti mediorientali: il viaggio diventa più lungo, costoso e pericoloso, ma milioni di persone in fuga arrivano e spingono sui confini esterni d’Europa, chiedendo di entrare.
 
Dice di non avere paura
Sia Y. che le altre centinaia di persone incontrate negli ultimi tre anni parlano del viaggio quasi come se stessero parlando della storia di qualcun altro, non di una storia vissuta in prima persona. I racconti sono tutti simili: la corsa a folle velocità attraverso il deserto anatolico sui furgoni e pick up (ogni tanto qualche carcassa di veicolo seppellito dalla sabbia), gli spari al confine con la Turchia (scheletri e corpi abbandonati nel nulla), l’attraversamento del mare tra Turchia e Grecia di notte su piccoli canotti (con la guardia costiera che se ti prende ti lascia alla deriva). Ancora, l’attraversamento del fiume Evros (cercando di non farsi vedere dalla polizia greca e dai cani che abbaiano), poi nel cuore dei Balcani ex jugoslavi il fiume Drina, gelido e impetuoso (ogni anno trascina con sé corpi che non verranno mai più ritrovati).
Racconta Y. di quando una bambina siriana di 3 anni nel canotto sul mare greco piangeva, e non riuscivano a farla smettere, e delle lacrime e delle preghiere della madre che aveva paura di morire. Ma poi Y. si mette a ridere come un qualunque teenager che vuole fare il grande, dicendo che lui no, non aveva paura. Chilometri e chilometri sotto le scarpe comprate per pochi soldi nei negozi dei cinesi o ricevute come donazione nei campi profughi dove ha dormito per mesi. Lo avevo salutato lo scorso autunno in Serbia, era venuto al Social Cafè e aveva detto «Tomorrow I go, pray for me». Ho pregato per lui. E per tutti gli altri come lui, in viaggio da soli, da troppo tempo. Scalzi, affamati, infreddoliti, senza nulla da perdere se non la proprio vita. Quanto si ridimensiona il valore dell’esistenza di fronte a questi viaggiatori laceri. Quanto emerge la nostra fragilità e la nostra precarietà a questo mondo. Quanto diventano pesanti e inutili tutti gli oggetti di cui ci riempiamo le case e esistenze. E se in fondo bastassimo solo noi?
 
Aveva tentato per tutto l’inverno
Ogni tanto con Y. ci si ci era sentiti via messaggio, tra Facebook e Whatsapp. Aveva provato per tutto l’inverno ad attraversare il confine tra Serbia e Croazia, saltando sui treni o infilandosi nei camion. «My bad luck, mom, tomorrow again», la mia sfortuna, ma domani riprovo... Poi se ne erano perso le tracce, come di tanti altri, ma con la speranza che ce l’avesse fatta. A volte questi ragazzi a distanza di mesi si fanno vivi con nuovi profili per dire: ce l’ho fatta, sono in Germania, in Francia, grazie per tutto quello che hai, che avete fatto. Y. era sparito, in parte lo avevo anche dimenticato.
Sino a quando in autunno, a un anno dall’ultimo saluto, me lo sono ritrovata davanti al Sedra, un campo per famiglie e minori non accompagnati vicino a Bihac, in Bosnia ed Erzegovina. Più alto, con qualche pelo di barba, più stanco. Era in corso una ricognizione per l’imminente inaugurazione dei Social Cafè, progetto che ha visto aprire al Sedra e nel campo di Ušivak, vicino a Sarajevo, due angoli per l’animazione e l’educazione non formale, gestiti da Ipsia e Caritas; a Sarajevo ci sono anche altri soggetti a valorizzare il partenariato (Centro pastorale “Giovanni Paolo II”, associazione “Youth for peace”, Museo dell’infanzia di guerra). Il progetto è consistito nella costruzione e predisposizione di due spazi, all’interno dei quali vengono realizzati ogni giorno laboratori, attività di animazione e socializzazione. E in cui vengono serviti litri e litri di tè nero bollente, una delle bevande più diffuse e amate dalla popolazione che abita i campi.
 
Divieto di movimento, complice il virus
Y. torna ad assaggiare il tè del Social Cafè. E dice: «Ha lo stesso sapore di quello in Serbia». Ribatto: «Dopo due anni ho imparato a farlo, non abbiamo più cambiato le dosi. Sono 30 litri d’acqua per ogni contenitore, due chili di zucchero e 60 bustine di tè nero che viene tenuto in macerazione per decine di minuti». A seconda del campo, ogni giorno nei Social Cafè vengono serviti più di 2 mila tè neri fumanti.
I due nuovi Social Corner vanno ad aggiungersi a quelli di Bogovadja in Serbia e del campo per single men di Bihac. La realizzazione del progetto è stata possibile anche grazie a papa Francesco, che in occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, celebrata il 27 settembre, ha deciso di inviare attraverso la Nunziatura apostolica in Bosnia Erzegovina un segno concreto di sostegno ai migranti e ai loro accompagnatori.
Così Y. attacca il suo nuovo racconto. Dopo aver provato ad attraversare i confini croati e ungheresi, si è spostato insieme ad altri ragazzi in Bosnia Erzegovina e in primavera si è trovato sul confine nord-occidentale del paese, bloccato a Sedra. Proprio quando, dal 21 marzo, la Bosnia Erzegovina, oltre all’obbligo di mascherine, guanti e distanziamento sociale, ha imposto il coprifuoco serale e il lockdown.
Con la motivazione che i migranti si spostano troppo liberamente e potrebbero essere portatori del virus, è stata emanata una direttiva che imponeva «totale divieto di movimento dei migranti al di fuori delle strutture di accoglienza temporanea». «Ai migranti è inoltre vietato spostarsi in treno, autobus, furgoni, taxi e su tutti gli altri mezzi di trasporto», dettagliava in aggiunta un documento del governo del Cantone di Una Sana.
Così, per lunghi mesi, chi viveva nei centri non è potuto uscire, né per andare al game, né per far fronte a piccoli bisogni quotidiani, l‘acquisto di sigarette, delle ricariche telefoniche (necessarie, data la scarsa copertura delle reti wi-fi nei campi) o di piccoli generi di conforto anche per i bambini. Il tutto in centri sovraffollati, senza distanziamento sociale, mascherine, guanti o igienizzanti. 
Solamente con l’estate i campi sono stati riaperti, e in maniera massiccia sono ripartiti i game. L’ultima frontiera prima del sogno è così tornata vicina. La Croazia è a pochi chilometri da Sedra, e sono due le settimane di cammino tra boschi e montagne, inseguiti dalla polizia, per arrivare sul Carso triestino.

Giura che scriverà dall’Italia
Y. racconta di quando la polizia ha fermato lui e il suo gruppo. Dopo averli perquisiti e aver rubato soldi e cellulari, hanno bruciato le loro cose: zaini, sacchi a pelo, ma anche vestiti e scarpe. Li hanno rimandati in Bosnia Erzegovina scalzi e denudati, a colpi di manganello. Decine e centinaia di testimonianze raccontano della violenza, delle umiliazioni e delle violazioni dei diritti umani esercitati sui tanti confini europei dalle polizie a difesa dell’Ue e degli illegittimi respingimenti a catena, che – partendo anche dai rintracciamenti della polizia italiana – rimandano indietro decine di persone dalla Slovenia sino alla Bosnia Erzegovina, senza che sia possibile nemmeno esprimere intenzione di chiedere asilo. Viene da chiedersi con che coraggio questi difensori della “patria” colpiscono uomini innocenti, che urlano di dolore e chiedono in lacrime la protezione internazionale di fronte agli occhi delle loro donne e dei loro bambini.
Anche questa volta Y. finge di non aver avuto paura. Ma chi ci crede che non ne ha avuta, questo ragazzo così alto e così magro, che viaggia da solo da due anni, bloccato in una terra nella quale non vuole stare, senza sapere più come andare avanti e senza poter tornare indietro, colpevole solo di essere nato nel paese sbagliato, con un passaporto che non vale niente?
Davanti all’ennesimo bicchiere di tè bollente, Y. racconta che ci riproverà ancora. E che scriverà dall’Italia. «Inshallah mom you will see», se Dio vorrà, mamma, vedrai...

Silvia Maraone