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Fatima dopo il fuoco, tre libri per crescere   versione testuale
20 aprile 2021

A volte é come se i film venissero proiettati a ripetizione sullo stesso schermo. Raramente sono scene romantiche, o da «e vissero felici e contenti».
Ha sempre sognato, Fatima, di entrare per magia in uno di quei film della tivú, in cui la povera sguattera diventa la sposa dell’eroe di turno e d’incanto sale le scale di palazzo per prendere parte a danze sfrenate e ritmate, che durano decine di minuti senza scalfire i sorrisi di gioia. 
E invece questo film lo ha già visto, e anche l’altra volta aveva gli stessi colori, il rosso e l’arancio, gli stessi odori di fumo e carne bruciata, lo stesso calore tremendo da far sciogliere i bracciali di rame sui polsi. 
E come la volta prima non è un film, ma la durissima realtà del fuoco. Allora la scenografia era il suo villaggio in Myanmar, ora è questa landa secca in Bangladesh. Ma le scene si sovrappongono. 
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Lo scorso 22 marzo un incendio ha devastato quattro dei numerosi campi profughi nella regione di Cox’s Bazar, nel Bangladesh sud-orientale, provocando la morte di almeno 15 persone, il ferimento di migliaia e lasciandone 88 mila senza casa.
Quello degli incendi è solo uno dei problemi che i profughi Rohingya, popolazione cacciata dal Myanmar a più riprese nel corso della storia, e in modo estremamente massiccio nell’ultima crisi del 2017, devono affrontare.
Il clima torrido di una buona parte dell’anno, la densità abitativa e i materiali utilizzati per la costruzione dei ripari all’interno di quello che, nel suo complesso, si può considerare il campo profughi più grande del mondo sono un miscuglio di ingredienti instabile e pericolosissimo. Basta allora una fiamma libera – all’ordine del giorno, dove si vive di cibo cucinato a legna – per innescare incendi frequenti, spesso subito domati, talvolta capaci di effetti distruttivi e altre, come a marzo, con conseguenze devastanti. 
Solo nell’ultimo mese si sono registrati almeno tre roghi di una certa importanza, e ben 73 dal 2017 a oggi, che hanno richiesto l’intervento dei vigili del fuoco e hanno portato le persone a dover cambiare casa e a perdere i propri poveri averi.
 
Sulla collina esposta ai monsoni
Fatima questa volta ha perso una zia e due amichette, nel calore infernale di quel fuoco. Lei è riuscita a scappare e a trascinare, insieme al cugino, anche la nonna che ormai è troppo vecchia e stanca della vita per muoversi.
Il calore era insopportabile, ma di più bruciano ora le lacrime che rigano il volto di sua mamma, del fratello e della nonna. Papà è morto lo scorso anno quando, nel tentativo di far defluire le acque del monsone, è stato travolto da uno smottamento.
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Quando il caldo dà tregua, arriva la stagione dei monsoni che si abbatte senza parsimonia su queste baracche di bambù, allaga le strade di terra battuta e indebolisce i terreni spianati per far diventare campo profughi quelli che erano crinali di colline.
Le inondazioni, allora, portano – oltre che ad epidemie diffuse (colera, infezioni respiratorie) – anche alla distruzione di abitazioni, al forzato sovraffollamento dei campi non allagati, dove si stipano i profughi rimasti senza riparo, e in generale a una diffusa complicazione gestionale.
Le agenzie umanitarie preparano ogni anno il terreno e la popolazione all’evento monsonico e mettono in atto tutte le strategie possibili per prevenire i danni peggiori della stagione delle piogge. Ora, il devastante incendio di marzo ha destabilizzato i piani, ovvero ha aumentato in maniera esponenziale il rischio di esposizione alle conseguenze del monsone per le persone direttamente colpite, ma anche per quelle che vivono nei campi vicini.
 
Segregati sull’isola inospitale
Mamma piange perché ormai non è rimasto più niente, i documenti – qualche sgualcito foglio di carta protetto in buste di plastica – sono andati perduti, e cosi i pochissimi vestiti, il materasso di gommapiuma, le sedie e tutti i libri di Fatima.
Mamma piange perché nella loro terra si insegnava l’arabo e il birmano, perché papà pescava e questo bastava a vivere dignitosamente e a essere sereni. Piange perché per la sua Fatima sognava la scuola, lo spostamento in una città più grande, un buon marito e il sorriso radioso della bambina, dipinto sul suo volto ambrato.
Piange, perché da anni tutto questo non c’è più: né il pesce, né il marito, né i sogni. E adesso non c’è nemmeno la baracca.
Così Fatima si chiede se non stia meglio la sorella Menara, che con la famiglia è stata portata a Bashan Char, isola lontana ma dove, forse, ci sono più speranze e meno fuoco.
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Menara fa parte di un primo gruppo di oltre 1.600 profughi che sono stati spostati, contro la propria volontà, ad opera del governo del Bangladesh, in un’isola della baia, lontana, deserta e altamente soggetta ai cicloni che flagellano il paese
I profughi già trasferiti sono più di 14 mila, mentre il progetto prevede lo spostamento di almeno 100 mila persone. Il “trasferimento” dei profughi fa parte di un progetto del governo per alleggerire la tensione demografica nei campi di Cox’s Bazar, ma è stato fortemente osteggiato da molte organizzazioni umanitarie che chiedevano maggiori garanzie in termini di protezione, soluzioni abitative, sicurezza. «Il trasloco a Bhasan Char è una conseguenza del fallimento degli sforzi della comunità internazionale nel garantire una soluzione a quella che è divenuta l’emergenza prolungata dei profughi», osserva Bernard Wiseman, direttore di Medici Senza Frontiere in Bangladesh, riferendosi ai numerosi tentativi di cercare una soluzione umanitaria e politica sostenibile. Tentativi miseramente inappropriati e dunque falliti.
Le innumerevoli promesse da parte del Myanmar di riaccogliere i profughi e del Bangladesh di favorirne un rientro sicuro sono infatti rimaste lettera morta. E la situazione delicatissima del Myanmar, ora, rende queste prospettive non solo vane, ma quasi una beffa.
 
Attorniati dal Covid
Fatima e la famiglia vivono ora al campo 4, dove hanno trovato sistemazione in alcune baracche dismesse o liberate in tutta fretta per far spazio a loro, i “bruciati” del campo 9.
In realtà i veri ustionati, quelli orribilmente feriti nella devastazione dell’incendio, sono ricoverati negli ospedali della zona e lottano tra la vita e la morte, sperando di essere veramente gravissimi, così da poter aver accesso ai pochi posti letto rimasti nelle già poverissime terapie intensive.
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Da qualche giorno tutto il Bangladesh è tornato in lockdown, dato l’incremento preoccupante ed esponenziale dei casi di Covid. Aumentano i contagi, aumentano le complicazioni respiratorie e sistemiche, aumenta la pressione sui presidi sanitari, ma non cresce parimenti il comportamento sociale collaborativo e necessario all’appiattimento della curva epidemica.
Il Bangladesh è uno dei paesi a maggior densità demografica al mondo, con 1.115 persone per chilometro quadrato, e il 21,8% della popolazione che vive in povertà. Il sistema sanitario nazionale non è in grado non solo di rispondere allo scenario pandemico, ma nemmeno di assicurare l’assistenza ordinaria, poiché (dati dell’Organizzazione mondiale della sanità) i medici sono 3,05 e gli infermieri 1,07 ogni 10 mila abitanti, e il 79% della popolazione riceve dunque assistenza sanitaria solo via telefono.
 
Caritas, istruzione per più di tremila
Fatima tiene stretti sotto il braccio i tre libri che le sono stati donati: sono nuovi, colorati, ancora in gran parte incomprensibili, ma già così preziosi.
Se li rigira tra le mani e i suoi occhi neri catturano ogni colore della copertina per farne un punto luce della mente, in cui appendere sogni e speranze, e fantasticare di posti diversi e luminosi. Poi rimette i libri sotto il braccio e sorridente cammina saltellando fino al learning center.
Qui Caritas Bangladesh ha allestito, in una baracca di lamiera e bambù, del tutto simile alle case bruciate poco distante, un’aula con cartelli colorati, poster che spiegano come lavarsi le mani e come proteggersi dal virus, altri con l’alfabeto, altri ancora dedicati alle donne, perché sappiano difendersi dai rischi che, più di tutti gli altri, corrono all’interno del campo. 
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Caritas Bangladesh, grazie al supporto della rete di Caritas nel mondo, adottando le metodologie Life skills, Clown science e No strings interntional, ha costruito e attivato più di venti Cfs (Child Friendly Spaces), ovvero luoghi fisici di aggregazione e formazione per bambini e adolescenti. Più di 3 mila bambini e ragazzi, ad oggi, ricevono istruzione, ascolto, occasioni di aggregazione e vengono accompagnati a cercare soluzioni ai problemi più diffusi nel campo. E possono parlare di sé attraverso il gioco efficace e pedagogico.
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Fatima è in un gruppo con altre 16 ragazzine: insieme, guidate da un’educatrice, imparano a scrivere e a leggere, ma anche a comprendere i segnali del campo, a fare la spesa, a conoscere il proprio corpo che cresce, a relazionarsi con gli altri nel campo e fuori di esso. E soprattutto a giocare. 
Dopo le lezioni, i vari gruppetti di studenti, maschi e femmine insieme, rincorrono per le viuzze palle colorate, o vengono guidati dagli operatori in cacce al tesoro che sembrano non finire mai. 
E ogni, volta, alla fine, scoprono che il tesoro di queste cacce è già con loro: è il sorriso bianco della spensieratezza da bimbi, è il cuore che pulsa fino a scoppiare per le corse e per la gioia, è il sudore non di fatica, questa volta, ma di felicità. È il rimbalzare di sguardi furtivi tra adolescenti che fa dimenticare gli incendi, le alluvioni, i virus e la fame.
 
Beppe Pedron