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Mercoledì 28 Aprile 2021
Confronto multilivello, e il Piano avrà successo   versione testuale
28 aprile 2021

Con l’intervento alla Camera, il 26 aprile, del Presidente del Consiglio, Mario Draghi, si è aperta l’ultima parte dell’iter definitorio del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): l’approvazione parlamentare dei due rami del Parlamento consentirà l’invio alla Commissione Europea, che dovrà dare la sua approvazione entro il 30 giugno.
L’intervento di Draghi, di alto profilo, ha sottolineato con forza la decisività del Piano per il futuro del paese, non usando un linguaggio astrattamente politico, ma concreto nella sua evocazione delle plurime condizioni di disagio presente nel nostro paese. Draghi ha invitato a leggerlo con dentro «le vite degli italiani» e «le attese di chi ha più sofferto gli effetti devastanti della pandemia».
Proprio a partire da questo approccio, Caritas italiana aveva pubblicato, nei giorni precedenti, un dossier dal titolo Sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Contributo a un percorso di riflessione, analisi e proposta, nel quale ha cercato di descrivere il contesto generato dall’evento pandemico e ha riflettuto sulla questione – dibattuta sul piano soprattutto istituzionale – di una governance sussidiaria del sistema di investimenti e riforme che scaturirà dal Piano.
 
Acceleratore delle fragilità nazionali
Per capire che cosa rappresenta il Pnrr – e cosa può rappresentare per l’Italia – c’è la necessità di analizzare non solo i dati degli effetti sanitari, sociali ed economici di questa crisi pandemica, ma occorre cercare di sviluppare una lettura critica dei processi che sono a monte di questa tragedia globale, i suoi effetti aggregati sulla vita personale e comunitaria, le trasformazioni che ha avviato, le prospettive che si intravedono dalla visuale definita dal secondo anno di pandemia. A monte di tutto questo, ci sono comunque decenni di politiche neoliberiste che hanno modellato il pensiero dominante e l’azione politico-economica dell’intero pianeta, paradossalmente anche nelle aree sotto regimi di ispirazione marxista. Queste politiche, sintetizza il Dossier Caritas, hanno prodotto effetti di cui oggi misuriamo l’insostenibilità: «il primato del mercato rispetto alla società e alla politica – e in questo ambito il conseguente primato della finanza sull’economia reale –; la crescita illimitata incurante dell’ambiente; le politiche pubbliche orientate alla crescita piuttosto che al benessere e alla redistribuzione della ricchezza prodotta; regimi fiscali a protezione dei redditi dei più ricchi, anche a scapito di politiche sociali e sanitarie adeguate; i tempi di vita delle persone in balia delle esigenze del mercato del lavoro, nonché un mercato del lavoro deregolamentato e a tutele decrescenti per i lavoratori».
La pandemia, in altri termini, ha rappresentato solo un tragico acceleratore delle fragilità infrastrutturali nazionali, producendo danni proporzionali alle condizioni dei sistemi di salute, economici e ambientali dei contesti in cui sta producendo i suoi effetti. Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli Tutti, certifica: «La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato» e che, oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, «dobbiamo rimettere la dignità umana al centro, e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno».
Il Pnrr, in questa prospettiva, dovrà intervenire non solo sugli effetti del Covid-19 nei diversi paesi, ma sull’effetto aggregato della pandemia con politiche economiche e sociali succedutesi negli ultimi decenni: non si tratta di curare le conseguenze di una pure gravissima pandemia, ma di provare a innescare processi virtuosi di sviluppo, attenti ai loro esiti ambientali e sociali.
 
Solo statale? Irrealistico…
Il Dossier Caritas non entra nelle cifre del Piano: i primi commenti segnalano, per quanto riguarda la Missione 5, quella relativa a “Inclusione e coesione”, rispetto alla versione licenziata dal governo Conte 2, la diminuzione dei fondi sui nidi, l’assenza di un finanziamento vero e proprio dell’annunciata riforma per la non autosufficienza – che perpetua un’idea di innovazione nel sociale “a costo zero” –, un ridotto finanziamento per il lavoro femminile (vedi Linda Laura Sabbadini, Caro Premier, su donne e asili non ci siamo, La Stampa, 27aprile 2021). La sensazione è di uno sforzo quantitativo comunque inedito sulle questioni connesse alle politiche sociali, ma su obiettivi e con risorse non sempre del tutto adeguati alle condizioni sociali del paese.
Ma il Dossier Caritas pone soprattutto una questione di metodo – già espressa con il Forum Disuguaglianze e Diversità –, relativamente alla necessità di una governance sussidiaria e un dialogo sociale fitto, strutturato e di merito, superando le evanescenti ritualità del recente passato.
Immaginare una mobilitazione di tale entità per il paese, con l’idea di una governance esclusivamente statale, è infatti da considerarsi un approccio non solo discutibile sul piano costituzionale, ma irrealistico sul piano dei mezzi. Si utilizza la qualifica “statale”, perché la vocazione pubblica delle attività dei soggetti sociali è ormai consacrata dal Codice del terzo settore, che per delimitare gli ambiti di attività degli stessi utilizza la locuzione di “interesse generale”, e dal pronunciamento (sentenza 131/2020), la scorsa estate, della Corte Costituzionale in merito alla – fino ad allora – controversa questione della coprogrammazione e coprogettazione.
Caritas italiana, con il Forum disuguaglianze e diversità ha proposto, sin dall’avvio della costruzione del Piano «un dialogo sociale e trasparente, che raccolga i saperi che lavoro, cittadinanza attiva e imprese possono mettere rapidamente in campo». Indicando la via non di un «un incontro estemporaneo a un “tavolo verde” di Palazzo Chigi o di altro luogo, dove (…) scambiate osservazioni generali». Ma di fare riferimento al Codice europeo di condotta sul partenariato emanato dalla Commissione Europea nel 2014 per la programmazione e gestione dei fondi comunitari, ove si chiarisce la natura sostanziale del confronto e il fatto che esso deve estendersi a tutte le parti “pertinenti”, inclusi «organizzazioni o gruppi che sono o che è probabile che siano interessati in modo significativo dall’attuazione dei fondi”.
 
Attori, né beneficiari né spettatori
La proposta richiedeva una «apertura del confronto attenta alle priorità strategiche trasversali del Piano (donne, giovani, territori marginalizzati e lavoro); programmazione di giorni e notti di lavoro politico e tecnico attorno ai singoli obiettivi strategici che il Governo propone; incentrati sui “risultati attesi”, nel frattempo resi espliciti. […] È su questi ultimi, prima di tutto, che la voce della società va sentita. “Sono queste le priorità?”, “Sono sufficientemente chiari, misurabili, ambiziosi i risultati attesi? Sono realizzabili, e come?”».
Tutto questo, purtroppo, non è avvenuto. Certo, ora il testo inviato al Parlamento afferma esplicitamente la volontà di costruire un modello di governance ispirato «ai principi fondamentali delle politiche dell’Ue, così come enunciati nella Charter for Multilevel Governance in Europe, adottata dal Comitato europeo delle Regioni nel 2014: il principio di sussidiarietà, il principio di proporzionalità, il partenariato, la partecipazione, la coerenza delle politiche, le sinergie di bilancio, con l’obiettivo di potenziare la capacità istituzionale e l’apprendimento delle politiche tra tutti i livelli di governo». Non c’è motivo per diffidare di un simile e così formale impegno; d’altro canto, non si può cancellare la consapevolezza che gli standard di coinvolgimento dei partenariati istituzionali, fino ad ora, siano stati gravemente carenti (quanto a comunicazione tempestiva delle informazioni e dell’accesso a esse, al tempo concesso per analizzare e commentare i principali documenti preparatori, ai canali messi a disposizione dei partner per porre domande, fornire contributi ed essere informati della sorte delle loro proposte, infine alla divulgazione dei risultati delle consultazioni).
Se l’intenzione codificata nel Pnrr è seria, vanno dunque osservate alcune condizioni, per rendere possibile una governance multilivello effettiva e non declamata:
  • l’offerta trasparente e tempestiva dei dati di monitoraggio, il più possibile di dettaglio e non aggregati;
  • il superamento di un’offerta di dati solo quantitativa (spesso limitata a progetti finanziati, risorse impegnate, progetti conclusi);
  • la definizione di modalità di utilizzo dei dati prodotti da soggetti di terzo settore, che non devono sostituire i dati istituzionali, ma possono offrire un contributo tempestivo al monitoraggio dei processi e alla rimodulazione degli interventi;
  • la necessità di definire forme di valutazione di impatto dei progetti finanziati, anche in itinere;
  • la valutazione partecipata dei processi amministrativi connessi (qualità dei bandi, modalità di controllo e monitoraggio, ecc.);
  • la costruzione di offerte formative congiunte tra amministrazioni e soggetti sociali (peraltro finanziabili con i fondi europei) per sviluppare processi di empowerement di sistema.
 
Diversa e strutturata relazione
C’è dunque un cantiere di riforma implicito dentro il Piano: quello di una “governance sussidiaria”, che definisce tempi, luoghi e modalità di interlocuzione tra privato sociale e amministrazioni a tutti i livelli, non lasciati alla benevolenza degli attori pubblici, ma incardinati nella volontà comune di costruire sistemi territoriali meno permeabili a inquinamenti e rischi di dispersione di risorse.
Il Presidente del Consiglio, concludendo il suo intervento alla Camera, ha espresso la certezza che «l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti». Condividiamo questa fiducia, anche se tra i nemici di un'attuazione piena del Pnrr vi sono atteggiamenti meno drammatici, ma altrettanto insidiosi, come l’abitudine, la diffidenza, le resistenze passive, che si possono vincere solo se il Piano diverrà lo strumento di una diversa e strutturata relazione tra politica, pubblica amministrazione e soggetti sociali, al fine di costruire un sistema-paese meno opaco, capace di imparare dalle pratiche, meno rigido e intempestivo rispetto ai cambiamenti e – a tutti i livelli – più responsabile.

Francesco Marsico