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Migrazioni, la certezza che ci sfida   versione testuale
11 maggio 2021

Dal 2014 più di 20 mila uomini, donne e bambini sono morti o scomparsi nel Mediterraneo centrale, che conferma ormai da quasi un decennio il suo triste primato di rotta migratoria più letale al mondo. Nessuno degli accordi e provvedimenti adottati dagli stati, dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum, attuata dal governo e dalle forze militari italiane per poco più di un anno tra 2013 e 2014, è mai riuscito a far diminuire il tasso di mortalità, nonostante l’intervento delle ong nelle operazioni di ricerca e soccorso in mare. Negli ultimi anni molte organizzazioni hanno lavorato indefessamente per garantire un presidio nel Mediterraneo, lottando non solo contro i trafficanti, ma soprattutto contro una narrativa comune che le dipinge come conniventi con le organizzazioni criminali che lucrano sui migranti. Molti teoremi, anche di matrice giudiziaria, sono stati costruiti per delegittimare il lavoro delle ong, senza però riuscire mai a provare un loro diretto coinvolgimento nelle attività di smuggling of migrants (“traffico di migranti”, ovvero il fenomeno per cui un trafficante, dietro pagamento, procura l’accesso illegale di una persona migrante in uno stato).
 
Giusto bilanciamento
Come ribadito dalle Nazioni Unite, questa colossale e tragica perdita di vite umane richiama la necessità di ristabilire un sistema di operazioni, nel Mediterraneo centrale, coordinato dagli stati membri dell'Ue. Non è (più) possibile delegare la responsabilità di tali interventi alla guardia costiera libica: le persone, invece di essere soccorse e condotte in un porto sicuro, come vorrebbe la normativa marittima internazionale, sono sempre più spesso riportate indietro dalle autorità del paese nordafricano, e sottoposte a detenzioni arbitrarie, violenze e abusi di ogni genere, ampiamente documentati. La Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen,ha recentemente ricordato che salvare la vita in mare è un obbligo giuridico, oltre che morale, a cui l’Ue e i suoi stati membri non possono sottrarsi. Papa Francesco, davanti alla tragedia che, nella seconda metà di aprile, ha comportato la morte in mare di 130 migranti, ha parlato di «momento della vergogna», chiedendo preghiere per le vittime, ma anche per quanti, pur potendo «aiutare preferiscono guardare da un’altra parte».
È ormai evidente che l’Unione europea non è in grado di porre in essere un sistema di gestione della migrazione prevedibile e affidabile, o non sa coagulare la volontà politica degli stati in questa direzione, e così si dimostra non all’altezza del difficile compito. La consapevolezza di questa incapacità ha indotto la Commissione, nel mese di settembre del 2020, a proporre l’ennesimo Nuovo patto sulla migrazione e l'asilo, volto a individuare le questioni chiave di un approccio europeo globale al fenomeno migratorio. L’obiettivo dichiarato è garantire un’equa ripartizione tra i principi di responsabilità e solidarietà, fondamentale per ripristinare la fiducia tra gli stati membri e rafforzare la capacità dell'Unione europea di gestire la migrazione.
La vera sfida, dunque, è di carattere politico, e consiste nel trovare il giusto bilanciamento tra la sicurezza delle persone che cercano di raggiungere l’Europa e le preoccupazioni dei paesi collocati lungo le frontiere esterne dell'Ue, che temono flussi incontrollati e per questo necessitano della solidarietà degli altri stati. Per fare funzionare un Patto così ambizioso è necessario lavorare su un presupposto fondamentale e non più rinviabile, ovvero la riforma radicale dell’attuale sistema “Dublino”, incentrato sull’attribuzione delle responsabilità ai paesi di primo ingresso nell’Unione. Il Patto del settembre 2020, però, non sembra raggiungere questo “giusto bilanciamento”: appare infatti ispirato più a una logica securitaria, con particolare riferimento alle procedure alle frontiere, che già hanno legittimato, negli ultimi anni, sistematiche violazioni dei diritti umani di migranti e rifugiati. Ma il Patto appare ambiguo anche perché votato prioritariamente all’esternalizzazione delle frontiere, confermata recentemente dai rinnovati accordi con la Turchia, la Libia e i paesi del Sahel.
 
Approccio integrato, dal Mali al Sudan
Occorrerebbe, in altre parole, un autentico cambio di strategia, di cultura, e non secondariamente di attitudine etica. Il vasto tema dei flussi migratori, in altre parole, non può essere più affrontato in un’ottica emergenziale circoscritta all’Europa e all’area del Mediterraneo, ma va inserito in un quadro più ampio, che consideri la dimensione regionale come punto di partenza irrinunciabile, in vista di possibili risposte nel medio-lungo periodo. È necessario definire, in altre parole, interventi volti a stabilizzare la Libia e i paesi del Sahel, da anni attraversati da una gravissima crisi umanitaria, innescata dagli effetti del cambiamento climatico e dai conflitti in corso, non ultimi quelli scoppiati in Ciad ed Etiopia.
È dunque indispensabile che l’Europa promuova un approccio integrato, che abbia al centro la pace e la protezione delle persone nella grande regione che comprende Mediterraneo e Sahel, assieme alla lotta alla povertà e alle enormi disuguaglianze, in particolare in paesi quali Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger, Sudan e Sud Sudan. Ciò a cui assistiamo, però, è una politica europea volta quasi esclusivamente alla securizzazione dell’area e al controllo delle frontiere e dei flussi migratori verso la Libia e l’Europa stessa. Ma dovrebbe essere ormai chiaro che un’efficace governance delle migrazioni non può passare solo attraverso la chiusura delle frontiere, e dovrebbe invece promuovere una gestione e una regolazione dei canali d’ingresso che tengano conto della complessità dei flussi misti: servono soluzioni durature, complementari ma con elementi distinti, per chi fugge dai conflitti e per chi cerca lavoro.
 
Legalizzare e rafforzare i corridoi
La complessità del fenomeno e le sue attuali proporzioni reclamano la necessità e l’urgenza di mettere in campo più misure di intervento e più livelli di azione: oltre al ruolo chiave della politica estera, occorre implementare una serie di misure che facilitino l’arrivo in sicurezza delle persone costrette a compiere viaggi della speranza, che spesso finiscono per rivelarsi viaggi della disperazione, se non della morte. La legalizzazione delle vie sicure di accesso all'Europa è la strada maestra, se si vuole evitare che le persone continuino ad affidarsi ai trafficanti di esseri umani e a morire in mare. Ormai sono stati individuati e sperimentati con successo molti strumenti che permettono una migrazione legale e sicura: ciò che manca, purtroppo, è la volontà politica di mettere a sistema questo patrimonio.
Tra gli altri, i corridoi umanitari per i rifugiati si sono dimostrati negli anni un’importante risposta per migliaia di profughi bloccati in paesi di transito, che con fatica cercano di proteggerli. I numeri, però, sono ancora assolutamente insufficienti e l’impegno internazionale è limitato a poche esperienze, tra cui spicca quella del governo italiano, che in collaborazione con la Chiesa sta portando avanti programmi di corridoi umanitari da diversi paesi, fra cui Niger, Giordania ed Etiopia.
Allo stesso modo, il ricongiungimento familiare o l’ingresso per motivi di lavoro, se rafforzati, potrebbero costituire elementi di forte discontinuità, rispetto a una prassi legislativa e gestionale consolidata negli ultimi anni, in base alla quale la maggior parte dei paesi di destinazione si mostrano poco inclini ad aumentare le quote d’ingresso di chi fugge non solo dalla guerra, ma sovente dalla fame.
Durante l’ultima missione in Niger, Caritas Italiana – e chi scrive – hanno incontrato molti profughi candidati al prossimo corridoio umanitario (fine giugno 2021). Le loro storie di sofferenza nelle carceri libiche per mano delle milizie governative, le stesse a cui l’Italia ha deciso di affidare il controllo delle frontiere, sono sempre accompagnate da una certezza lapidaria: «Se non verrò con i corridoi umanitari, sarò costretto ad attraversare il mare». Ogni approccio politico al fenomeno che non tenga conto di questa determinazione, e che dunque disciplini e organizzi più sicuri e controllati canali d’accesso, non solo sarà definibile come irrealistico, non solo sarà contestabile sul piano etico e umanitario, ma sarà inesorabilmente votato all’insuccesso.
 
Oliviero Forti