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La parte destra della curva   versione testuale
31 maggio 2021

Il mondo intero, e in esso il mondo dei servizi per le persone con disabilità, è stato profondamente scosso dall’evento pandemico, in Italia e nel mondo intero. Durante la preoccupante crescita della curva epidemica, le istituzioni hanno affrontato la sfida di rintracciare soluzioni di emergenza, che garantissero la continuità assistenziale e insieme la qualità di vita possibile, mentre al contempo affrontavano notevoli difficoltà economiche.
Ora, mentre la curva epidemica punta decisamente verso il basso, la questione del cambiamento organizzativo, non più ancorata al criterio della pura emergenza può iniziare a contemperare le esigenze sanitarie con quelle educative, evitando di farsi ispirare soltanto dalla sicurezza (o dalla paura), per aprire il terreno pedagogico della speranza, antropologicamente fondata e metodologicamente sostenuta.
 
Orizzonte domiciliarità?
Di fronte alla crisi si sono manifestati, tra gli operatori dei servizi per le persone fragili, in particolare quelle con disabilità, in modo a volte netto, a volte sfumato e ambiguo, tre atteggiamenti:
  • l’adattamento, inteso come una serie di misure di difesa e di resilienza, con lo sguardo concentrato sul presente (difesa eroica) e il cuore ancorato al passato (nostalgia del ritorno alla normalità); si tratta, come è evidente, di una posizione fortemente conservativa, che negli operatori si è unita a un’effettiva capacità, a tratti eroica, di resistenza, che tuttavia non lascia spazio ad apprendimenti;
  • l’attacco ideologico: posizione secondo cui la pandemia sarebbe soltanto un indicatore estremo, una sorta di acceleratore della crisi di istituzioni che già prima del Covid dovevano essere chiuse, in quanto non rispettose della persona e sostanzialmente superabili da altre forme di assistenza, a coefficiente territoriale; tale impostazione, seppur motivata da un’istanza di bene e di miglioramento, rischia di perdere parecchie sfumature, tralasciando non solo quanto di buono i servizi sono riusciti a esprimere dalla loro nascita a oggi, ma anche la loro funzione probabilmente incancellabile, all’interno di una filiera completa e capace di rispondere a tutti i bisogni;
  • l’innovazione: è l’atteggiamento dal quale prende avvio questa riflessione… la crisi pandemica, come ogni altra crisi, non può essere “sprecata”, ma va letta e interpretata come agente di cambiamento, superando la tentazione conservatrice, ma anche quella pantoclastia (ovvero distruttiva di tutto ciò che sta attorno all’epicentro di una crisi), e identificando i sostenibili elementi di cambiamento che, sposati da leader creativi e operosi, possono finire per migliorare uomini e istituzioni.
Tra questi tre atteggiamenti rischia di prevalere il secondo, come trapela anche tra le righe del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Secondo un tale approccio, i servizi (che eravamo abituati a conoscere) sono segreganti: è la casa il luogo dove le persone con disabilità devono vivere. La domiciliarità sembra dover rappresentare l’unica offerta in grado di rispettare la dignità della persona con disabilità, salvaguardandone a un tempo la salute. Nulla di nuovo, peraltro: la censura alle istituzioni residenziali vanta una storia secolare, che l’emergenza pandemica ha solo acuito, offrendo il destro per accelerare le critiche, in un momento delicatissimo per la stessa esistenza dei servizi.
 
Traiettorie di vita banalizzate
Ma è proprio così? L’ipotesi che i servizi residenziali e diurni non siano utili alla comunità civile andrebbe messa al vaglio di un serio impianto di ricerca, volto a indagare se questa tipologia di organizzazione sia in ogni modo una soluzione deprecabile, oppure se per una particolare fascia di popolazione essa rappresenti un sostegno concreto per la più alta qualità di vita possibile. Senza questo tipo di riflessione, supportata da dati ed evidenze empiriche, tutte le posizioni di principio, sia difensive che offensive, rischiano di essere ideologiche, unilaterali, e in fondo inutili e dannose. La politica dei servizi, infatti, deve essere costruita nel nome dell’appropriatezza, e non di sterili discussioni che traducono un presunto piano valoriale in affermazioni apodittiche e in fondo cieche.
L’ideologia, peraltro, nasce sempre da una buona idea. Ma, come spesso è accaduto nella storia dell’uomo, una buona idea, estremizzata, diventa la “notte in cui tutte le vacche sono nere”, facendo smarrire la capacità di discernere, distinguere, personalizzare. Ora, se un tempo si giustificavano approcci assistenzialistici, standardizzati e segreganti, per nulla rispettosi della dignità della persona con disabilità, né portatori dei suoi veri interessi, d’altra parte l’insistenza sulla domiciliarità può banalizzare la complessità delle traiettorie di vita, particolarmente là dove la complessità della disabilità e le legittime esigenze del nucleo familiare potrebbero suggerire percorsi diversi. Insomma, se c’è stata e c’è un’ideologia dell’assistenza residenziale, forse ora c’è un’ideologia della domiciliarità. Dall’una e dall’altra occorre sfuggire, per assumere uno sguardo sereno, privo di posizioni aprioristiche.
 
I limiti della concentrazione
Superato il rischio dell’ideologia, occorre anche mettere da parte la tentazione del cosiddetto “ritorno alla normalità”. Se la parte sinistra della curva è stato il tempo della resilienza e della tenacia, ora, nel tempo della parte destra, probabilmente ancora più sfidante di quello emergenziale, si manifesta il momento del cambiamento e della generatività: occorre comprendere quali prospettive di cambiamento possono essere considerate non più solo come rimedi, ma come linee trasformative, con un raggio d’azione che si estende al di là della contingenza.
È molto probabile che tra queste ci siano quell’insieme di prospettive intorno alle quali la riflessione si coagulava già prima del virus, invocando un cambiamento paradigmatico. Se così fosse, la loro validità a lungo termine non può dipendere semplicemente da un evento catastrofico, ma dalla loro capacità di interpretare il presente e il futuro, avendo come stella polare la Qualità di Vita delle persone con disabilità.
Come in molti altri settori della vita sociale e comunitaria, il virus ha infatti messo in luce i limiti del modello di organizzazione che risponde al principio “industriale” della concentrazione e della standardizzazione. Nel campo dei servizi, questo modo di organizzare risponde al cosiddetto paradigma clinico-funzionale: le persone con disabilità sono “concentrate” in un luogo autorizzato e accreditato, all’interno del quale l’operatore esamina i problemi della persona, allo scopo di pianificare soluzioni di natura tecnica, avendo come obiettivo l’aumento delle autonomie, in ogni settore del funzionamento umano. In questo modo, la persona diventa oggetto di trattamenti riabilitativi perpetui, che finiscono per posizionarla dentro i confini di pianificazioni professionali, prevedibili, ripetitive e standardizzate. Il progetto individuale si riduce a un percorso di fruizione di prestazioni professionali fissate a monte, e per così dire “pensate a partire dai professionisti”. Si assiste alla programmazione di settimane rigide e senza tempo, che hanno come inevitabile effetto quello di mettere le persone nella condizione di non scegliere.
 
Qualità di Vita al centro
Durante la pandemia, l’invenzione della cosiddetta tele-riabilitazione non ha cambiato certamente lo scenario, rimanendo nella vecchia cornice delle prestazioni standard, con l’aggiunta del “remoto”. Il potenziale superamento del paradigma standard, per entrare nella logica del Progetto di Vita (e del Budget di Progetto, strumento flessibile per remunerare le prestazioni), richiede un cambiamento ben altrimenti profondo, verso il paradigma esistenziale, animato dal costrutto di Qualità della Vita.
In questo scenario prende campo una vera e propria svolta personalistica, in grado di superare la visione “tecnica” e “riabilitativa”: il focus si sposta dalle autonomie funzionali del soggetto ai valori e alle priorità della persona. Il progetto di vita, diversamente dal progetto riabilitativo, diventa lo strumento con il quale l’operatore indaga i bisogni esistenziali della persona, allo scopo di predisporre i sostegni necessari al raggiungimento della più alta QdV possibile.
 
Contribuisce la comunità
Nel nuovo paradigma, a fondamento della progettazione non ci sono più, in primo luogo, i risultati di check list osservative, che evidenziano i deficit funzionali, ma i resoconti di interviste strutturate, che cercano di portare alla luce le dimensioni più profonde della persona, ovvero le sue traiettorie valoriali e le esigenze della sua incancellabile propensione alla felicità. L’intervista rileva valori, aspettative e desideri della persona nei cosiddetti “domini di qualità di vita”, ovvero ambiti esistenziali importanti per ogni uomo, come le relazioni, l’inclusione, l’autodeterminazione, lo sviluppo personale.
In questo scenario di metodo (oltre che valoriale), ogni volta che si è chiamati a costruire il Progetto di Vita, le domande fondamentali, dalle quali scaturiscono i sostegni, diventa: è possibile aumentare l’autodeterminazione della persona, la sua inclusione, il suo benessere emotivo? Con quale tipo di interventi e sostegni? E in quali luoghi?
Si spezza così la logica della concentrazione (con la conseguente “esclusività” delle terapie professionali), e si afferma il principio secondo il quale i sostegni possono essere organizzati dappertutto, e non necessariamente in luoghi “autorizzati”. Inoltre, al Progetto di Vita contribuiscono non solo i professionisti, ma la comunità nel suo complesso – il territorio bresciano, per esempio, sotto la spinta di Sidin (Società italiana disturbi del neurosviluppo) e il sostegno di tre fondazioni locali ha generato un progetto di riconoscimento e sostegno alle Comunità amiche della disabilità –, che riscopre così la sua istanza di prossimità. È la prospettiva di innovazione generativa che dobbiamo saper costruire, mettendo a frutto l’“occasione” fornita dalla pandemia.
 
Roberto Franchini