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Slum bianco latte, nonostante tutto   versione testuale
2 settembre 2021

La pandemia da Covid-19 ha avuto profondi effetti sulle condizioni socioeconomiche del Kenya, cumulandosi ad altre emergenze in corso nel paese dell’Africa orientale: di fatto, come per molte altri paesi africani, una crisi acuta tra le crisi endemiche. La ripresa del paese è lenta, problematica e faticosa, ma è in atto. E questa enorme resilienza, in questo lembo d’Africa, ancora una volta fortunatamente smentisce le catastrofiche e costanti previsioni elaborate in un occidente e un nord del mondo lontani. Previsioni che all’inizio della pandemia sembravano non lasciare alcuno spiraglio alla speranza.
Un recente report della Banca Mondiale rileva che il tasso di occupazione, in Kenya, è crollato dal 71% dell’ultimo trimestre 2019 al 50% del periodo maggio-giugno 2020. Ma da quel momento in poi la curva è tornata a salire, sia pur lentamente, attestandosi tra il 57 e il 58% da luglio a novembre 2020, per poi aumentare fino al 66% di fine marzo 2021. La situazione peggiore, in generale, si è registrata nei centri urbani, mentre nelle zone rurali l’impatto, anche sull’economia, è stato in qualche modo minore. Ma ciò vale solo per quanto riguarda il coronavirus, perché se si considerano le varie e parallele emergenze cui si è dovuto far fronte nelle zone rurali, il bilancio cambierebbe sensibilmente.
 
Confluire di disgrazie
Nell’ultimo anno e mezzo, infatti, numerose sono state le crisi ambientali cui diverse zone del paese hanno dovuto far fronte. Una delle più massicce ondate di locuste che si ricordino ha infatti invaso il Kenya a partire da febbraio 2020, mentre dal mese successivo si sono aggiunte violente alluvioni che hanno provocato frane e inondazioni. Raccolti distrutti e bestiame decimato hanno posto seriamente in crisi la sicurezza alimentare, già minata dalle restrizioni (limitazioni ai movimenti e all’importazione di cibo dai paesi confinanti) imposte per contrastare la diffusione del Covid.
Questo confluire di disgrazie ed emergenze, combinato alle difficoltà economiche acuite dalla crisi innescata dalla pandemia, ha inasprito alcuni indicatori sociali rilevanti, e in ogni caso la qualità della vita di molte persone. L’ultimo dato, rilevato a febbraio 2021, sullo stato di malnutrizione in Kenya indica che tale condizione interessa 1,4 milioni di persone, ovvero il 15% in più rispetto al dato del precedente anno. Mentre sono circa 541 mila i bambini tra i 6 mesi e i 5 anni in stato di malnutrizione acuta (livello 4, su una scala da 0 a 5).
Si tratta di dati che preoccupano, e non potrebbe essere altrimenti. Ma sono dati che comprendono in sé vari livelli di complessità, essendo determinati anche da fenomeni preesistenti alla diffusione del Covid (a cui poi si sono sommati gli effetti della pandemia, primi fra tutti quelli sul mercato del lavoro) e complicati da strategie di risposta chiaramente ridotte, in un quadro economico particolarmente incerto.
 
Agli allevatori ricavi più equi
In questo contesto, si sono sviluppati gli orientamenti e le riflessioni del progetto Milky, condotto dall’ong Celim con il supporto di Caritas Italiana nella contea di Kiambu, nel centro del paese. Si tratta di una contea risparmiata dall’invasione delle locuste, che ha dovuto fare i conti “soltanto” con una stagione delle piogge ben al di sotto delle medie stagionali e con una limitata propagazione del virus, seppure i dati disponibili non siano sufficienti per poter stabilire la gravità e l’entità di diffusione del Covid.
In 4 sottocontee di Kiambu, il progetto Milky opera sin dal 2018 con circa 2 mila allevatori, per rafforzare la produzione di latte e sviluppare una filiera lattiero-casearia sostenibile e attenta all’impatto ambientale. A partire da marzo 2020 la sfida si è fatta ancora più aspra, ma l’obiettivo è rimasto lo stesso e la strategia per raggiungerlo si è via via arricchita, aggiungendo nuove risposte alle criticità imposte dalla pandemia.
La visione che ha guidato l’intervento progettuale a partire da marzo 2020 è stata immediatamente chiara: era necessario mantenere un introito stabile per gli allevatori, attraverso la vendita del latte, nonostante le condizioni di generale incertezza, economica e sociale, che minacciavano di mettere a rischio una categoria di per sé già vulnerabile.
La raccolta e la vendita del latte, mediata dagli operatori di progetto, non si è mai interrotta, neanche per un giorno. Al contrario, nonostante le tante avversità del contesto, il volume di latte quotidianamente processato è andato aumentando proprio a partire da marzo 2020, quando si è fatto evidente e urgente il bisogno di garantire una stabilità e continuità economica.
Creare un modello alternativo alla vendita giornaliera – e in nessun modo garantita –, effettuata tramite mediatori informali, e assicurare agli allevatori un ricavo più equo, in un mercato complesso e oligopolistico come quello kenyano, erano obiettivi ben chiari sin dall’inizio dell’intervento. La pandemia, in questo, ha fatto da acceleratore.
Ma la pandemia ha anche imposto di ampliare gli ambiti di intervento del progetto, includendo le periferie e le baraccopoli della capitale Nairobi. Luoghi difficili e violenti, sovraffollati e carenti di servizi essenziali, in cui il distanziamento sociale suona come un ossimoro e il lavaggio frequente delle mani risulta difficile, dato che mancano acqua e sapone. La pandemia e la conseguente crisi economica hanno drasticamente colpito questi contesti, in cui a prevalere è il lavoro informale e giornaliero, che ha dovuto fare i conti con un lockdown nazionale protrattosi per lunghi mesi. 
 
Migliaia di litri venduti sfusi
Portare il latte negli slum e nelle periferie di Nairobi è stata un’azione, per quanto piccola e circoscritta, che ha voluto sottolineare l’importanza di sostenere le economie più fragili e le aree più vulnerabili. Il latte prodotto a Kiambu dai piccoli allevatori sostenuti dal progetto è un latte organico, di alta qualità, ottenuto senza l’utilizzo di prodotti chimici. La disponibilità di un prodotto simile in contesti marginali e periferici non è affatto scontata, poiché il target della produzione generalmente è la fascia medio-alta dei consumatori, e il costo finale, di conseguenza, più elevato. 
Nel caso di Milky, peraltro, il prezzo finale per il consumatore non cambia, rispetto al latte di altre marche. Cambia, invece, quello pagato ai produttori per litro: più alto, più equo, per garantire un introito stabile e restituire dignità al lavoro.
Per ottenere questo risultato, è stato sufficiente eliminare la voce di costo più gravosa sul bilancio e sull’ambiente: la plastica. Il latte, infatti, non viene confezionato in bottigliette monouso o tetrapack, ma trasportato in latte di metallo e venduto in piccoli negozi dotati di distributori automatici. L’acquirente, in sostanza, porta con sé il proprio contenitore per comprare il latte, pagando solo per il contenuto di ciò che acquista e contribuendo a creare un modello circolare, che evita l’immissione di rifiuti nell’ambiente. A ciò si aggiunge la possibilità di acquistare la quantità di latte desiderata, o quella che ci si può permettere: non un dettaglio irrilevante, in contesti in cui il frigorifero è un bene rarissimo, e dunque non c’è la possibilità di conservare e mantenere refrigerati gli eccessi e gli avanzi del giorno.
Kibera, Mathare, Pangani sono solo alcuni, e senza dubbio i più conosciuti tra gli slum di Nairobi. In essi, ogni giorno, il progetto Milky distribuisce migliaia di litri di latte pastorizzato, da vendere sfuso. Qui, come in tante altre periferie, i rifiuti semplicemente non vengono gestiti dalle autorità, e il loro spargimento per le strade dei quartieri alimenta l’ennesima emergenza. Ma, come alle volte accade, è proprio dalle aree più difficili e disperate che emergono le strategie di adattamento e trasformazione più funzionali: modelli innovativi, che danno risposte concrete nell’oggi. E aprono strade percorribili da tutti, nel futuro. 

Angela Mariotti