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San Severo: don Felice e il sacramento dei poveri"   versione testuale
4 ottobre 2021

In occasione della festa liturgica di San Francesco, il poverello di Assisi, patrono d'Italia, pubblichiamo un articolo di Sr. Francesca Caggiano fma, vicepostulatrice, sul Venerabile Don Felice Canelli di San Severo e il “sacramento” dei poveri. (Nella foto: don Canelli nel 1953, nella colonia estiva di Manfredonia)
 
Il Venerabile don Felice Canelli concluse la sua lunga ed intensa esistenza terrena il 23 novembre del 1977, all’età di 97 anni. In Paradiso un’innumerevole schiera di poveri con i quali ha condiviso il pane e il Vangelo lo ha accolto ed il Signore gli ha sicuramente detto: «Vieni benedetto dal Padre mio, “perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato”» (Mt 25, 35). Nella sua tomba, nel sacello della sua Croce Santa, Parrocchia di periferia che ha servito per più di 50 anni (1927-1977), è stata affissa nel giorno della sua tumulazione una frase tratta dal suo testamento: “Continuate a servire Dio nei fratelli”, a sintesi di una vita vissuta nel riconoscere Gesù nei poveri. Anche oggi ci insegna che la povertà è teofania della Rivelazione: «È presente Gesù sotto le specie sacramentali, è presente sotto le forme personali del povero»; che la lode più bella a Dio avviene nel dare dignità al fratello bisognoso: «Qual è il nostro altare? Il tabernacolo del tempio e la mano del povero»; che c’è una identificazione tra Gesù e i poveri, tra la mensa eucaristica e la mensa della fraternità, della solidarietà e della partecipazione: «Nell’Eucaristia è Gesù che nutre noi poveri, ma siamo noi poi che nutriamo Gesù nel povero» e che i poveri non sono una categoria da servire con particolari servizi, ma persone da amare per cui giocarsi il meglio di sé. Diceva: «Occorre ardore d’amore per la croce di Gesù e la croce dei poveri». Egli, totalmente innamorato del Signore Gesù, sapeva dove incontrarlo e a chi rivolgersi! Nella moltitudine dei discepoli di Gesù, don Felice era talmente ricco di Dio e povero di sé da donare tutto in nome dell’unico Padre che rende tutti fratelli.
 
Don Felice povero ma “il padre dei poveri e dei caritatevoli”
Era nato a San Severo, nel Foggiano, nel 1880, da una famiglia poverissima. Rimasto orfano di padre all’età di 6 anni, non aveva neanche i soldi per sostenersi negli studi in Seminario tanto da entrarvi come semi convittore e venne mandato dal Vescovo Cappuccino, Mons. Bonaventura Gargiulo, a prendere il diploma di maestro di scuola elementare a Perugia per mantenersi negli studi. In casa non c’era neanche la luce elettrica e per studiare doveva recarsi per strada sotto il lampione comunale. Venne ordinato sacerdote nel 1903 ed iniziò il suo ministero distanziandosi dal clero borghese di stampo borbonico della sua diocesi, tipico del Sud Italia di quel tempo, che era filo-latifondista e latifondista e politicamente indifferente al grido dei poveri per paura di perdere il prestigio sociale. Essi, per assicurarsi il loro status quo, avevano edulcorato la fede a puro folklore evitando in tutti i modi di far attecchire, in quel difficile territorio, il Vangelo della Carità e della Giustizia e il magistero di Leone XIII, particolarmente della Rerum novarum del 1891 e della Graves de communi re del 1901 che apriva la Chiesa alla scottante questione sociale, fino a quel periodo monopolio dei socialisti ed anticlericali. La questione sociale era pane quotidiano nella sua terra abitata da braccianti, da sempre continuo scenario di lotte, tumulti e insurrezioni per un pezzo di pane e di terra. Non si poteva seriamente annunciare il Vangelo se non ci si metteva dalla parte dei poveri per difenderli nella loro dignità e nei loro diritti lavorativi. Gli agguerriti anticlericali conoscevano la portata della profezia dell’essere dalla parte dei bisognosi e cercavano in tutti i modi di servirsi della mediocrità e della poca testimonianza evangelica del clero per allontanare il popolo dalla Chiesa, screditare la veridicità della fede ed utilizzare la rabbia del popolo affamato a sostegno della propria ideologia. Don Felice scelse di realizzare il suo sacerdozio in un trittico edificante e profetico: sacerdozio, povertà e lavoro come antidoto all’anticlericalismo, nell’ottica del magistero di Leone XIII che indicava nella sussidiarietà, nella fraternità e nel bene comune la condizione reale per garantire i diritti di tutti e in modo particolare dei poveri, e nella democrazia cristiana la benefica azione dei cristiani a favore del popolo bisognoso. Fin dall’inizio del suo ministero Don Felice fu un prete povero tra i poveri. Un prete delle cose nuove che non lavorava per accaparrarsi privilegi, ma si dedicava soltanto alla crescita e alla dignità del popolo nella via della condivisione e della compassione. Non aveva nulla da difendere se non Dio e i poveri. La situazione sociale ed economica durò, così drammatica, fino agli anni 50 del XX secolo. Concretamente pochi contadini avevano un appezzamento di terra e il resto del popolo viveva di poco o di niente, alla giornata. Il cibo era scarso e la maggioranza non aveva soldi per pagare la luce e neanche la pigione della casa. Le leggi che vigevano, provvedevano in modo blando all’assistenza medica del popolo. Per essere aiutati dal comune bisognava essere nullatenenti ed anche se si possedeva solo un angusto e maleodorante sottano non si aveva diritto ad alcune agevolazioni. La mortalità infantile, per la scarsità di cibo e l’analfabetismo, era elevata. Sporadicamente un politico o sindacalista chiedeva, al governo di turno, condizioni di vita più umane per il popolo, ma subito era messo a tacere. I cattolici benestanti acquietavano la loro coscienza con la prassi dell’elemosina periodica, che era occasionale ed umiliante e la giustizia sociale rimaneva solo un vago desidero. Il Venerabile don Canelli si fece prossimo dei poveri, prese a cuore la loro miseria materiale e morale, condivise la loro vita e si impegnò a dare loro dignità. Entrò nella militanza politica come segretario, prima del Partito Popolare e poi come ricercato consigliere della Democrazia Cristiana, per cercare di promuovere leggi giuste a favore della fede e in aiuto ai bisogni del popolo sfruttato. Forte come un leone, alzò la voce contro i soprusi, le angherie e le ingiustizie dei poveri, dei malati, degli orfani, dei disoccupati, degli anziani abbandonati perché sapeva che «una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni» (Gc 1,27). Essendo convinto che la povertà fosse il frutto di uno stile di egoismo, di indifferenza e poca attenzione agli altri, collaborò con l’opera Salesiana e le Figlie di Maria Ausiliatrice della città nell’educare la gioventù a vivere la fraternità, senza alcuna distinzione di ceto sociale, nell’incarnare la fede in una cittadinanza attiva promuovendo processi di sviluppo per tutti, a partire dall’inclusione dei poveri per una vera democrazia, al rendere i giovani capaci di diventare - nelle loro famiglie e nei posti di lavoro - promotori di sensibilità e di attenzione verso i bisognosi. Fu con gli ex allievi salesiani e con le loro famiglie che costituì i consigli direttivi di tutte le associazioni diocesane (A.C., P.P.I, Scout, Dame della Carità, Conferenza di San Vincenzo, Salesiani Cooperatori ed Exallievi) perché fossero autentici uomini e donne di fede nella vita della città, così particolarmente bisognosa di una fede coerente e testimoniante. Sovente diceva: «La religione è compenetrazione dei bisogni altrui». Con i membri dell’Azione Cattolica e il Volontariato Vincenziano rivoluzionò il modo di fare la carità cristiana, che era vista come sporadica elemosina, e lavorò perché venisse considerata come esigenza di giustizia sociale, dando un differente approccio alla povertà. Insegnò loro ad andare alla ricerca dei più derelitti, a soccorrerli in ogni modo e ad amarli come fratelli con cui condividere la sorte e il riscatto. Educò con le parole e la testimonianza, al vero significato del ‘soccorso’, che non doveva fermarsi solo all’assistenza e all’aiuto materiale, bensì condurre all’emancipazione sociale e alla redenzione eterna. Faceva loro ripetere e vivere questa preghiera: «Signore Gesù, fa’ che io possa incontrare, ogni giorno, un povero bisognoso di aiuto perché io possa attuare il Tuo Comandamento di Carità».
 Per don Felice le necessità e i bisogni del popolo affamato erano una chiamata di Dio a vivere l’insegnamento evangelico, alla quale doveva rispondere con generosità e prontezza provocando con la fede una spettacolare libertà creativa nel fare il bene. Povertà, obbedienza e carità creativa e concreta si intrecciavano per creare quella forza motrice interiore che gli permetteva di animare il movimento cattolico a dare una risposta fattiva alle nuove povertà che emergevano momento per momento. Lo chiamavano “il padre dei poveri” perché, pur di aiutare un fratello bisognoso che gli chiedeva aiuto, era capace di privarsi dei suoi indumenti e delle sue scarpe, e perché con la fiamma della carità nel cuore, immedesimandosi nei bisogni della gente e mettendoli al centro della vita della chiesa e del territorio, promosse (per esempio) nel periodo difficile della seconda guerra mondiale, con le varie associazioni cattoliche diocesane e i suoi parrocchiani, la questua del grano per aiutare gli sfollati e i feriti di Foggia; il servizio di corrispondenza per i prigionieri; l’aiuto agli sfollati, agli assistiti delle associazioni caritative, ai profughi, ai soldati sbandati e combattenti, ai confinati politici, ai dimessi dalle carceri; chiese una collaborazione agli anglo-americani per la donazione dei loro avanzi di cucina a favore dei poveri della città e li coinvolse in una lotteria per i malati poveri e per l’acquisto degli indumenti per gli sfollati; collaborò con alcune dame al comitato assistenza ai minorenni discoli che vivevano soli e abbandonati per strada; ricercò e fece consegnare ai membri delle sue associazioni la carbonella per le case dei poveri e degli anziani soli che soffrivano i rigori del freddo; sostenne il Comitato “pro reduci di oltre mare”; promosse la raccolta di denaro in aiuto alle opere di carità volute da Pio XII; volle allargare il suo aiuto anche all’ente sinistrati nazionali italiani; favorì il sostegno al refettorio per le madri e i figli poveri e in difficoltà, l’aiuto agli ammalati del tubercolosario e la costituzione della cucina del Papa per i poveri della parrocchia e della città e altre opere assistenziali
Certamente, con il suo operato ed insieme ai suoi laici, non risolse le piaghe sociali del suo territorio, ma diede impulso a tante iniziative di attenzione, condivisione e di partecipazione alla vita dei poveri e in risposta alle nuove povertà che man mano emergevano, e fu di stimolo a tanti politici e sindacalisti a lavorare per il bene comune e la giustizia sociale. Nella fede e nella carità contagiò chiunque lo avvicinava e da tutti i politici di ogni colore politico veniva stimato e considerato il benefattore del popolo.

Povero per promuovere i poveri
Nella sua parrocchia di Croce Santa, fuori del giro esterno della città, abitavano tante famiglie numerose che mancavano di pane. Erano contadini provenienti da posti diversi posti con tanti figli a carico. Don Felice, appena giunto nel 1927 nella nuova parrocchia, decise di ampliare i piccoli vani della chiesetta per le celebrazioni e per l’accoglienza di tanti piccoli affamati, facile preda della delinquenza e della mortalità infantile. Essendo povero e avendo una parrocchia con un patrimonio inesistente, volendo ampliare la chiesa troppo angusta, chiese ai poveri un gesto semplice di appartenenza e di aiuto per la costruzione della loro parrocchia. I poveri non dovevano solo ricevere ma anche dare. Ad esempio, accettava da loro una manciata di olive, due uova, o il lavoro di un’ora per far avanzare la nuova costruzione. A chi non aveva nulla chiedeva un gesto di affetto. Così con la povertà e la grande paternità li conquistò tutti. Essi lo ritennero degno delle loro confidenze ed andavano a confidargli la loro storia dolorosa e il loro desiderio di dignità, di riscatto e di Vangelo di cui sulla loro pelle conoscevano in modo singolare le sofferenze del Maestro. Condivise totalmente la loro vita e i loro aneliti. Aiutato da sua nipote, Rosina Pazienza, maestra di musica, trasfigurò quei contadini in cantori di canto gregoriano in latino per rendere più partecipata la loro celebrazione liturgica. Ma con quella proposta fece molto di più: li considerò amabili anche se sporchi, dignitosi anche se scartati, buoni e belli anche se malvestiti, bravi anche se senza scarpe, fratelli anche se con le mani questuanti. Li amò di amore paterno, di quell’amore autentico e gratuito che vuole bene senza secondi fini, che valorizza anche in circostanze sfavorevoli. e li rende evangelizzatori e portatori di bene e di bellezza.