La scuola del popolo   versione testuale

Dal Guatemala: casco bianco Francesca Lupo

Giorno dopo giorno sono passata dalla visione del fare per a quella del vivere con... (Francesca)


Dal 9 luglio il mio orologio biologico batte ore diverse... sì, perché ogni mattina i miei occhi si spalancano a volte vispi a volte assonnati, però sempre instancabilmente curiosi in un nuovo mondo le cui coordinate spazio-temporali sono quelle del Guatemala.

Dal 9 luglio sono passate 9 settimane, però solo nel calendario perché, per quanto mi riguarda, ne sono passate molte di più o semplicemente non mi interessa contarle dal momento che hanno perso di significato.
Sono consapevole che quando la mia mente s’impunta su certe riflessioni è perché vuole farmi scoprire qualcosa e in questo caso è certamente la coscienza che in Guatemala, per lo meno nella mia Guatemala, non ha senso parlare di ore, giorni, settimane perché la vita segue un corso più naturale e con significati autentici e differenti a quelli a me familiari. La giornata inizia ancor prima della luce del sole e finisce in un anelatissimo sonno rigenerante.

Dal 9 luglio i miei piedi calpestano la preziosa terra di questo paese benedetto da Dios, qualunque esso sia. Immense distese verdi incastonate in cerulei specchi d’acqua e cieli cristallini e nuvolosi, si lasciano percorrere mostrando l’infinita bellezza e forza della Naturaleza.

Dal 9 luglio le mie mani vogliose cercano di stringersi con le mani di donne, uomini, bambine e bambini che è difficile distinguere al mero tatto senza immergermi nel sereno sorriso del loro viso color caffè.

Tutto questo mi succede perché dal 9 luglio sono nella tierra de los Hombres de Maiz, gli uomini di mais, come nell'omonimo libro di Miguel Angel Asturia, premio Nobel per la letteratura.

Dal 9 luglio la mia mente caparbia s’imbatte su un’altra riflessione nel tentativo di rispondere a questa domanda: «Perché sono in Guatemala?». Vi sono due possibili livelli di risposta, di cui uno di natura pratica: sto svolgendo il servizio civile internazionale come casco bianco nell’ambito di un progetto di Caritas Italiana "Il diritto alla Terra come lotta e prevenzione all’esclusione sociale".

L’altro, più profondo e personale: il significato della mia presenza in Guatemala. Questo livello di risposta è senza dubbio più complesso e ancora in evoluzione. Tuttavia, è rispetto a questo aspetto che sento il bisogno di scrivere e raccontare, probabilmente perché facendolo riesco a comprendere meglio il turbine delle mie emozioni.

Analizzare il senso della mia presenza in Guatemala è una specie di esercizio spirituale, una meditazione e un mettermi ogni istante in discussione. Una cosa certa è che il valore dell’essere qui è inscindibilmente legato al relazionarmi con una parte di mondo diversa, con una cultura diversa, appunto con la tierra de los Hombres de Maiz.

Prima di partire e appena arrivata ero convinta di essere qui per fare qualcosa per le persone con cui ora condivido le mie giornate. Tuttavia, giorno dopo giorno ho vissuto una sorta di intima rivelazione e sono passata dalla visione del fare per a quella del fare con o meglio del vivere con, del compartire, condividere, un momento della mia vita con quelli che Paulo Freire, il cui insegnamento qui è straordinariamente vivo, definì negli anni '70 «gli straccioni e gli ultimi della terra». Ma chi sono realmente questi straccioni e ultimi della terra?

Ho imparato che la ricchezza del Guatemala non è solo nella varietà delle risorse naturali, dei paesaggi, dei quattro principali colori del mais (rosso, giallo, bianco e nero), ma è anche quella della sua gente che, proprio come il mais, è formata da quattro popoli: Maya (che raggruppa 21 comunità linguistiche), Xincas, Garifunas e Ladinos o Mestizos. I primi tre sono le popolazioni indigene depositarie di una propria identità, lingua e cultura; questa è una ricchezza per il Guatemala, però una ricchezza scomoda perché queste popolazioni oppresse da antichi e moderni oppressori e dagli ultimi 36 anni di conflitto armato lottano da sempre per il proprio riconoscimento. È una lotta incessante, che nasce dal basso e quindi profonda ed ineliminabile, è una lotta per la trasformazione della realtà che li opprime e per il raggiungimento della libertà e della loro umanizzazione. È la lotta degli straccioni e degli ultimi della terra.

Ho imparato che le armi di questa lotta sono diverse da quelle che immaginavo perché sono quelle dell’educazione, di un’educazione che nella vecchia Italia non esiste... è quella fatta dal dialogo, dai racconti, dalle memorie, dalle tradizioni, dalla saggezza, dalla sofferenza, dal sorriso e dagli stracci di queste persone.

Ho imparato che queste armi sono efficaci perché attraverso un processo educativo lungo, i cui frutti a volte sono difficili da percepire, generano una trasformazione radicale e permanente della realtà.

Ho imparato che ho tanto, tantissimo ancora da imparare per essere un uomo libero, che non sono qui per aiutare nessuno se non me stessa e che in fin dei conti sono in Guatemala per educarmi frequentando una nuova scuola: la scuola del Popolo.
 
Settembre 2005