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 "Le ore che passano lente, sul bordo di una piscina che non c'è più" 
Lunedì 8 Agosto 2011
"Le ore che passano lente,
sul bordo di una piscina che non c'è più..."   versione testuale
di Danilo Feliciangeli, operatore Caritas Italiana a Lampedusa
  
La “base Loran”: che nome esotico. Chissà cosa pensavano i giovani marines americani, che negli anni Ottanta venivano assegnati a presidiare questa piccola base radio, su questo scoglio in mezzo al Mediterraneo.
  
I lampedusani ancora li ricordano, gli americani, come una presenza allegra, non ingombrante… «È vero, erano i padroni dell’isola» dice qualcuno «ma mettevano allegria quando giravano in gruppo per il paese un po’ alticci, ridendo e cantando canzoni in inglese!».
 
Molti ancora ricordano la piscina interna alla base Loran, dove gli americani avevano trasportato la sabbia dalla Spiaggia dei Conigli per fare il campo da beach volley. Oggi non puoi spostare nemmeno una pietra su quella spiaggia, ormai diventata oasi protetta. Chissà quante uova di tartaruga Caretta Caretta saranno finite schiacciate sotto i piedi di ragazzotti americani che giocavano a beach volley... Ora siamo seduti sul bordo di quella piscina, io e Abedì, o meglio su quello che era il bordo di quella piscina.
 
Alle base Loran gli americani non ci sono più, ora ci sono gli africani, “i turchi”, come li chiamano i lampedusani (… quanti popoli sono passati per questa isola…). La base Loran ospita oggi circa 150 “minori stranieri non accompagnati”, ragazzi tra i 14 e i 17 anni arrivati qui dal mare, a bordo dei barconi che salpano quasi ogni giorno dalla Libia. Non sono come i turchi, che venivano per depredare, non sono come gli americani, che si sentivano i padroni dell’isola, sono gli ultimi degli ultimi, giovani ghanesi, maliani, nigeriani, bangladesi, che vivevano da immigrati in Libia, senza genitori, scappati dal loro Paese per la fame o per le violenze. Come Abedì.
  
Abedì ha interrotto la solita partitella a pallone sopra la piscina, ormai ricoperta di cemento e trasformata in cortile (la chiamano campetto da calcio, ma non ha nemmeno le porte), per unirsi a noi in preghiera. Oggi alla Base Loran c’è un gruppo di giovani italiani, della comunità di Sant’Egidio, che organizzano un momento di preghiera per questi ragazzi accolti alla base Loran. Stiamo lì seduti in raccoglimento, uno di fianco all’altro, ascoltiamo i passi del Vangelo, ascoltiamo le parole del parroco di Lampedusa, Abedì tiene le mani giunte, è veramente assorto.
 
Al termine della preghiera scambiamo due parole. Quando gli dico che sono italiano, con gratitudine mi dice: «Gli italiani sono brave persone!». Io mi guardo intorno, e ripenso alle condizioni in cui gli italiani tengono questi ragazzi da settimane: se eravamo cattive persone cosa gli facevamo?!
 
Così, per ricambiare il complimento, gli dico con entusiasmo: «Be', anche i ghanesi sono brave persone!” e lui mi inizia a raccontare di come i ghanesi gli hanno ucciso i genitori. Prima il padre, in piazza durante degli scontri, nemmeno sapeva perché, forse una protesta, ma chissà contro cosa. Poi la madre, in casa, prima violentata e poi uccisa davanti ai suoi occhi da un gruppo di balordi.
 
No, secondo Abedì i ghanesi non sono brave persone. Ho fatto una gaffe terribile. Mi racconta che lui in Ghana non vuole più tornare, che non ne vuole più sapere del Ghana, che non gli importa più nemmeno del suo idolo, Abedì Pelè, il campione di calcio di cui porta il nome. Come dargli torto?
  
Abedì a 16 anni ha già visto morire ammazzati i suoi genitori, è partito con dei coetanei verso il deserto, lo ha attraversato non si sa come (o almeno non vuole dirmelo), è finito in Libia dove aveva un cugino, ha lavorato come garzone in un banco al mercato di Tripoli e ha dormito in strada di notte per più di un anno, cercando di sfuggire alla polizia libica.
 
Poi le bombe, la guerra, le bande per strada che andavano a caccia di “neri” e il sogno dell’Europa, la traversata in mare ed ora è qui, seduto sul bordo di una piscina che non c’è più, in una base americana che non c’è più, su un’isola che chiamano la porta d’Europa, di un'Europa che non c’è più o che forse non c’è mai stata.
 
Forse Abedì merita di più di questo. Forse merita di più di essere accolto in questo posto ormai fatiscente, con le pareti scrostate, i materassi in terra, il mobilio scadente, un solo piccolo televisore mezzo rotto che trasmette solo canali italiani, e dove tutto il giorno passa le sue giornate senza far nulla, come gli altri ragazzi, poco più che bambini, che condividono con lui la stessa storia.
  
Chissà cosa avrà pensato durante la preghiera Abedì, chissà cosa avrà chiesto al suo Dio. Forse avrà ringraziato per averlo fatto arrivare sano e salvo in Italia, o forse si sarà disperato e avrà chiesto perché sia dovuto nascere in Ghana invece che in Italia.