Home Page » Attivita' » Progetti » Italia » Emergenza COVID-19 » L'impegno Caritas » In Italia » AIDS: altro virus, che non va dimenticato » Necessario, utile e inutile: Milano prova a fiorire 
L’utile e l’inutile: Milano, è tempo di fiorire   versione testuale
18 agosto 2020

L’esperienza di questi mesi, dal lockdown a questa incerta estate, ci ha costretto tutti ad affacciarci su un abisso sconosciuto, a toccare con mano il dolore, a lasciare aperte molte domande. «Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile» (Etty Hillesum).
Ciascuno di noi è chiamato a rileggere l’accaduto per farlo diventare sapienza del cuore e delle opere, generatività resiliente e trasformativa. Operatori e ospiti della Casa alloggio per persone con Hiv-Aids “Centro Teresa Gabrieli” di Milano, aperto 30 anni fa da Caritas Ambrosiana, descrivono così la loro esperienza.
* * *
Buongiorno!
Non è un saluto banale, è un augurare e augurarsi che la giornata che abbiamo davanti sia buona. 
Non è stato facile né banale augurarci buongiorno nei giorni faticosi e densi del lockdown; è benaugurante in questi giorni di estate piena, in cui il virus invisibile forse sonnecchia.
Per noi, come per tutti, gli scorsi mesi sono stati scanditi da giorni intensi, di grandi preoccupazioni e timori, giorni in cui affrontare e gestire l’angoscia e la piena che non sapevi da dove arrivava e dove ci avrebbe trascinato, o se ci avrebbe lasciato aggrappati a un sostegno.
Giorni che abbiamo provato a gestire con le competenze che avevamo e le conoscenze (poche e frammentarie) che gli “esperti” erano in grado di comunicare… quelli seri, con grande cautela. Abbiamo fatto i conti con la percezione chiara di una minaccia incombente, sconosciuta o lungamente dimenticata.
Noi che condividiamo le nostre giornate con le persone con Hiv che ospitiamo, ci siamo ritrovati a vivere in modo amplificato e distorto alcuni déjà-vu… Questioni di vita e di morte, “untori” non individuabili da cui prendere le distanze, paura dei baci, degli abbracci, delle strette di mano, dei bicchieri condivisi. Timori non legati a sangue e sesso, come per l’Hiv degli anni Ottanta, ma al respiro di chi ci sta accanto: un alito di vita, che si fa vettore di goccioline che potrebbero essere cariche di un virus sconosciuto e altamente contagioso. Un virus che ti prende e invade, non risparmiando organi, e che se combatti male puoi farti più male di quanto te ne faccia lui.
 
Qualche strumento in più
Forse noi che conviviamo e operiamo con persone con Hiv da 40 anni abbiamo avuto qualche strumento in più per gestire procedure, sanificazioni e dispositivi, proteggendo i nostri ospiti e noi stessi. Abbiamo dovuto rafforzare e rimettere in campo abitudini che dopo i primi anni di Aids avevamo abbandonato, discernendo ciò che era indispensabile, utile e inutile nella gestione della pandemia.
Forse noi avevamo il grande vantaggio di aver già fatto i conti con la dimensione del rischio, con la necessità di ben comprendere, di razionalizzare, di informarsi per poter stare dentro una relazione significativa con l’altro, senza leggerezze. Questa è stata una competenza salvifica. Lavorare con patologie infettive apre alla dimensione dell’essere il più possibile presenti a se stessi. Impone di essere testimoni e protagonisti di emozioni intense (anche la paura), ed essere al contempo coscienziosi abitatori di una lucida razionalità. Questa dialettica, scritta sulla pelle dall’esperienza e dalla gestione di situazioni emergenziali, da un punto di vista sanitario ci ha concesso un grosso vantaggio: noi sappiamo che si possono attraversare i cerchi di fuoco, che la paura non necessariamente disgrega se attraversata. Ed avevamo la consapevolezza di dover necessariamente restare in una dimensione relazionale di équipe, come salvagente unico per sopravvivere alla piena.
È dunque il caso di riconoscere che nel vivere la pandemia emergono gli istinti più ancestrali, quelli che facciamo fatica a governare con la testa e il cuore, senza essere sopraffatti dalla pancia. Ma bisogna fare la fatica e avere la freddezza di discernere: tra ciò che è indispensabile (la distanza fisica tra i corpi di 1 metro, 2 da chi tossisce/starnutisce), ciò che è utile (tenere le mani pulite, acqua e sapone e solo se non ci sono una soluzione idroalcolica, indossare una mascherina che copra bene naso e bocca se non si può tenere la distanza, tenere pulito l’ambiente usando anche prodotti che sono virucidi, alcol e candeggina), infine ciò che è inutile (tutto il resto).
L’utile e l’inutile troppo spesso si sono ingigantiti e hanno rischiato e rischiano di travolgerci. Con sanificazioni eccessive, con litri di prodotti negli scarichi fognari, con centinaia di paia di guanti buttati, con attenzioni maniacali a dettagli minimi. L’indispensabile, l’utile e l’inutile, ancora di più nelle relazioni tra noi: nel vivere e nel comprendere ciò che giorno per giorno ci fa umani. Abbiamo dunque sperimentato una distanza fisica che sa essere presenza, condivisione di storie, senso e significati, messa in comune di timori e speranze.
 
La sepoltura. E un giardino aromatico
A Milano gli ospiti e gli operatori della casa-alloggio “Teresa Gabrieli” hanno creato, in un angolo del piccolo cortile, un giardino aromatico (nella foto), pensato come luogo di incontro intimo e profumato, colorato e rilassante, nato proprio in pieno lockdown, quando siamo stati sepolti. «A volte, quando sei in un posto buio, pensi di essere stato sepolto. In realtà sei stato piantato» (Christine Caine)
In tutta onestà, non sappiamo ancora dire come stiamo. Il tempo del pensiero, della riflessione sul “cosa ci è accaduto”, di cui abbiamo un gran bisogno, non è ancora compiuto. Sappiamo che, come sempre, siamo passati insieme nella paura. Abbiamo reagito, ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo tutelato, abbiamo stimolato, abbiamo creativamente risposto al disorientamento e alle necessità: abbiamo fatto gruppo sino a rifiorire insieme. Diciamo che siamo spuntati.
La chiave per noi è stato il dialogo vivo, la condivisione dei processi, la scrupolosa attenzione alle regole del gioco e la costante domanda aperta. «Io cosa posso fare?». Paradossalmente, questo luogo di diagnosi infausta sulla carta, ha ostinatamente difeso la vita. Ne ha affermato il diritto, ha tenuto un ritmo nel lockdown, per non far fermare il cuore.
Siamo spuntati di nuovo, come il nostro giardino.
Ci siamo passati insieme, nella sepoltura, tutti. Abbiamo condiviso con trasparenza le nostre paure, l’ansia di dover garantire accompagnamenti quotidiani all’ospedale Sacco anche nelle settimane più buie. Abbiamo continuato a essere una squadra. Per il resto, ora che siamo spuntati dobbiamo occuparci di fiorire, perché la sepoltura non sia stata vana. Fiorire non è un processo naturale: è lavoro di cura e fatica. Adesso è il tempo di ricominciarla.
 
Laura Rancilio
Paola Riccardi