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Il virus segue la diaspora, ma i Balcani sono resilienti   versione testuale
23 aprile 2020

«È incredibile, sembra di essere tornati alla primavera del 1992, quando la guerra stava iniziando: i negozi che chiudono, le persone che corrono a fare le scorte al supermercato, le strade senza piu auto, i divieti di uscire, il coprifuoco, la paura di un nemico sconosciuto…». Stanislava è di Sarajevo, Bosnia ed Erzegovina. Era una ragazzina, in quella primavera 1992, quando cominciò la guerra che avrebbe tenuto sotto assedio la città per oltre 4 anni. Oggi è una madre, lavora in un ufficio ministeriale, ed è incredula mentre osserva quello che succede alla sua città.
Sembra che tutto si ripeta, nuovamente, come 28 anni fa: solo che il “nemico” oggi non è un esercito con i carri armati e i cecchini. È un nemico invisibile, arrivato chissà come e chissà quando in città. Dai primi di marzo, infatti, anche Sarajevo e la Bosnia ed Erzegovina hanno iniziato a fare i conti con il Sars-Cov-2, il coronavirus che sta mettendo in ginocchio ormai tutto il mondo.
Se a Sarajevo la situazione sembra comunque per il momento sotto controllo, ci sono purtroppo altre zone del paese dove invece sono scoppiati focolai ben piu gravi: uno nella zona di Banja Luka, seconda città del paese, situata al nord; l’altro nella regione dell’Erzegovina, a sud. In Erzegovina il virus si è diffuso inzialmente tra le città di Mostar e Konjic, e dopo pochi giorni è arrivato pure a Medjugorie, contagiando alcuni religiosi e soprattutto svuotando completamente il paesino mariano dalle centinaia di migliaia di pellegrini che sono soliti visitarlo. La Quaresima 2020 è stata la prima nella quale a Medjugorie non c’è stato nemmeno un fedele: tutto vuoto, settimane e settimane in silenzio.
 
Sistemi sanitari inadeguati
Il korona, come lo chiamano tutti da queste parti, si è ormai diffuso in tutti i paesi del sud-est Europa: dalla Slovenia fino alla Grecia, non c’è paese che non sia alla prese con questa nuova, imprevedibile sfida. Le misure prese dai governi sono state un po’ dovunque le stesse: si è cominciato con la chiusura delle scuole e degli asili, per passare poi al blocco delle attività economiche non indispensabili. Si sono chiusi anche tutti i valichi di frontiera, obbligando chiunque arrivi dall’estero a fare almeno 15 giorni di quarantena. In alcuni casi, come in Albania, in Serbia e in Bosnia ed Erzegovina, si è arrivati addirittura al coprifuoco totale: per vari giorni, c’è stato il divieto assoluto di uscire di casa nelle 24 ore. Ormai è passato oltre un mese, ma le misure sono ancora molto rigide e non vengono allentate facilmente.
C’è di fondo, in tutti i paesi del sud-est Europa, una grande preoccupazione: sia i politici sia i cittadini sanno che i sistemi sanitari locali sono molto fragili, inadatti a contenere una pandemia di questo tipo. Manca tutto: sono pochissimi i posti di terapia intensiva, sono pochissime le mascherine e i dispositivi di protezione individuale, è scarsa la preparazione dei medici e degli infermieri, le procedure di presa in carico dei contagiati non sono adeguate. Inoltre, non va dimenticato che i sistemi sanitari di questa regione sono “all’americana”, cioè basati sul sistema dell’assicurazione privata: se sei assicurato hai accesso gratuitamente ai servizi sanitari, sennò devi pagare cifre enormi – e quindi, di fatto, non hai accesso ai servizi. Questo elemento è molto pericoloso, perchè eventuali contagiati non assicurati non hanno la possibilità di farsi visitare o curare, restando dunque nelle loro case o nelle loro comunità, e diffondendo pericolosamente l’epidemia.
È chiaro dunque che, se il contagio dovesse sfuggire di mano, i sistemi sanitari balcanici non reggerebbero il colpo. Ed è anche per questo motivo che misure molto dure sono state prese immediatamente, senza tentennamenti: nei Balcani l’unico modo per evitare la tragedia causata dal korona è infatti la prevenzione. Evitare che il virus si diffonda. Perchè, se si diffondesse, sarebbe troppo difficile recuperare.
 
Il massiccio rientro delle diaspore
Nonostante tutte le misure restrittive, però, il virus ha trovato il modo di espandersi e di contagiare migliaia di cittadini dei paesi balcanici. Al 21 aprile 2020, si contavano già oltre 14 mila casi di positività tra i paesi ex jugoslavi e in Albania: non pochi, in una regione di 24 milioni di abitanti – cioè complessivamente un terzo degli abitanti dell’Italia. Il portale di Al Jazeera Balkans, la succursale regionale del famoso network informativo, ha aperto un’infografica dove è possibile seguire in tempo reale la diffusione dell’epidemia nella regione. 
Uno dei motivi principali che potrebbe aver contributo al contagio è stato il rientro di centinaia di migliaia di cittadini balcanici della diaspora tra fine febbraio e inizio marzo: persone che vivevano e lavoravano in Italia, in Germania, in Austria e che hanno preferito rientrare alla svelta nei loro paesi di origine, non appena è esploso il contagio nei luoghi in cui risiedevano. Le aziende in cui lavoravano nell’Europa occidentale sono state chiuse, e così molti hanno raggiunto alla svelta case e famiglie di origine, anche a costo di affrontare un periodo di isolamento. Si stima che siano rientrati migliaia e migliaia di albanesi per lo piu dall’Italia; mentre le migliaia di bosniaci, serbi, macedoni e kosovari rientrati arrivavano per lo piu da Austria e Germania. Un numero preciso è difficile da stimare, ma è certo che l’ondata di rientro è stata imponente e che in un numero così alto di persone ci siano stati vari casi di contagiati che hanno accelerato la diffusione del contagio nei loro paesi di origine.
Senza lavoro e senza rimesse
Le migliaia di cittadini rientrati si trovano oggi bloccati nei paesi balcanici: una parte di loro ha già perso il lavoro nell’Europa occidentale (e con esso, di conseguenza, il permesso di soggiorno); gli altri – anche se le loro aziende in Italia o in Germania riaprissero – al momento non possono fare rientro nei paesi di emigrazione, dunque rischiano pure loro di restare senza lavoro. Si tratta molto spesso di membri giovani di famiglie che fino a poche settimane fa, grazie agli stipendi che guadagnavano nell’Europa occidentale riuscivano ogni mese a mandare qualche soldo a casa, ai propri familiari. Anche il meccanismo delle rimesse, sul quale si reggevano molte economie familiari nei Balcani, sembra dunque essere messo a forte rischio.
Per tutti i cittadini rientrati, così come per i cittadini che dal loro paese non se ne sono mai andati, sarà dura ricostruirsi un futuro nei Balcani: in tutti i paesi della regione, già in una fragile condizione economica prima del coronavirus, gli effetti sociali ed economici della crisi potrebbero essere devastanti e costringere a chiudere anche le (poche) esperienze imprenditoriali di successo.
 
Abituati a rimboccarsi le maniche
In tutto questo, l’unica luce di speranza è data dal senso di solidarietà e di mutuo supporto che spesso le comunità balcaniche sanno tirar fuori nei momenti difficili. Già negli anni Novanta, quando le varie guerre e crisi umanitarie colpirono l’intera regione, molte famiglie riuscirono a sopravvivere e poi a ripartire grazie al supporto reciproco. Lo stesso potrebbe accadere domani, quando il coronavirus allenterà la sua morsa: da un certo punto di vista, le comunità balcaniche sono più resilienti di quelle dell’Europa occidentale. I legami familiari sono più forti, la relazione con il territorio è molto stretta. Le comunità balcaniche sono inoltre in un certo senso piu “abituate” di quelle del resto d’Europa a rimboccarsi le maniche e a ripartire da zero: lo hanno dovuto fare varie volte nel recente passato, sanno come si fa, non si demoralizzano facilmente.
Anche in questo caso hanno capito, forse prima e meglio di tanti altri, che la ripartenza potrà avvenire solo insieme, senza lasciare nessuno indietro. Il coronavirus ha insegnato che nessuno si può salvare da solo, e i Balcani sembrano averlo capito bene.
Dai Balcani è infatti partito uno dei segni e dei messaggi più forti rivolti all’Europa nelle settimane della crisi. Sono state le parole del premier albanese Edi Rama, quando ha deciso di inviare un gruppo di medici e infermieri a sostegno degli ospedali italiani: «Sicuramente non cambieremo le sorti della guerra con trenta medici e infermieri, ma era qualcosa di assolutamente naturale da fare, perché stiamo combattendo anche qui, ma combattere in Italia è come combattere a casa nostra. È semplicemente fare il nostro dovere come membri di una famiglia che è la nostra. Non siamo ricchi e nemmeno privi di memoria, e non ci possiamo permettere di non dimostrare all’Italia che gli albanesi e l’Albania non abbandonano mai l’amico in difficoltà».
 
Daniele Bombardi