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Domenica 3 Maggio 2020
Travolto dalla crisi, il Libano si accanisce sui profughi   versione testuale
4 maggio 2020

Anche il Libano è sotto lockdown. E un clima cupo avvolge la Terra dei Cedri, già segnata da una profonda crisi economica e fortemente indebitata. Beirut, la Parigi del Medio Oriente, è irriconoscibile, le sue strade deserte. Anche i presìdi, nucleo delle proteste contro corruzione e disoccupazione, che avevano caratterizzato per settimane Beirut e altre città, sono oramai scomparsi del tutto.
La popolazione, come nel resto nel mondo, teme molto il Covid-19 e i libanesi, oltre alla malattia, guardano con preoccupazione alla crisi economica, che si abbatte violenta sul paese dall’autunno scorso. Le conseguenze, per la maggioranza dei cittadini, saranno devastanti: tra settembre 2019 e febbraio 2020 il crollo dell’economia ha determinato la chiusura di 800 ristoranti, pub e trattorie. Solo a gennaio, 240 imprese sono fallite, con tanti di posti di lavoro perduti, in un paese in cui il tasso di disoccupazione tra chi ha meno di 25 anni è stimato al 37%. E ora il costo della vita è salito alle stelle, complice la pandemia globale.
L’inflazione – che il ministero delle finanze libanese ha stimato raggiungerà il 27% nel 2020 – continua a crescere, mentre la lira libanese si è svalutata in maniera esponenziale: è passata da 1.500 per un dollaro a 2.800, e ciò ha determinato un drastico aumento anche dei prezzi dei beni primari, quali cibo e medicine. Nel frattempo, a più di un mese dal blocco, la mancanza di una risposta politica tempestiva, chiara e coordinata ha lasciato molte famiglie letteralmente sul lastrico, perché incapaci di pagarsi affitti, mutui, utenze, alimenti. A novembre 2019, mesi prima che la minaccia di COVID-19 diventasse evidente, la Banca Mondiale aveva previsto che la popolazione libanese al di sotto della soglia di povertà sarebbe aumentata dal 30 al 50% nel 2020. Alcuni economisti stimano che questa cifra sia cresciuta ulteriormente, superando di molto le previsioni. La pesante crisi economica, che ha generato mesi di proteste a carattere nazionale, a partire dallo scorso ottobre, ha lasciato la maggioranza della popolazione libanese con mezzi scarsi o nulli, per fronteggiare ulteriori difficoltà.
Il quadro macroeconomico che si delinea è decisamente a tinte fosche. Il Libano, da qualche settimana nelle mani del Fondo monetario internazionale, è ufficialmente inadempiente e non è affatto sicuro di riuscire a ristrutturare il suo debito estero in termini più favorevoli, come spera il governo Diab. I creditori chiedono un piano credibile, che dimostri che il debito ristrutturato sarà rimborsato.
Un punto interrogativo grava inoltre sugli 11 miliardi di dollari in aiuti internazionali promessi da 51 stati nell’aprile 2018. Il Libano ha un disperato bisogno di 25-30 miliardi di dollari nei prossimi anni e teme che il recente crollo del prezzo del petrolio e le conseguenze dell’emergenza sanitaria spingano l’Arabia Saudita e altri paesi a congelare i finanziamenti che Beirut si aspetta.

Strumenti di mobbing
Nel paese il 15 marzo sono stati chiusi tutti i servizi non essenziali, con l’esclusione di forni, farmacie, supermercati e banche; tre giorni dopo sono stati sospesi i voli da e per i paesi epicentro del virus e chiusi i confini di terra e di mare. Il governo ha inoltre imposto dal 26 marzo un coprifuoco dalle 19 di ogni sera alle 5 del mattino.
La situazione, però, si inasprisce nei campi profughi, che ospitano centinaia di migliaia di rifugiati siriani, tra 1,5 e 2 milioni di persone, da anni ormai nel Paese dei Cedri. L’organizzazione internazionale Human Rights Watch denuncia che negli ultimi tempi le autorità libanesi utilizzano le misure di contrasto alla pandemia “adattandole” al caso siriano: diventano strumenti funzionali di mobbing, con l’obiettivo specifico di cacciare i profughi dai confini nazionali.
Già all’inizio di marzo, scrive in un comunicato Hrw, dunque ben prima che le restrizioni venissero estese a tutto il paese, 8 comuni hanno imposto coprifuoco “speciali” ai soli rifugiati. È il caso di Brital, nell’est del Libano, dove ai siriani è stato imposto l’obbligo di non uscire per gran parte della giornata, con l’esclusione di una finestra di poche ore, dalle 9 del mattino alle 13. Chi viola le nuove regole, aggiunge Hrw, è passibile di denuncia e confisca dei documenti, unico strumento che permette loro di rimanere legalmente in Libano. Per questo molti rifugiati evitano di recarsi in cliniche e ospedali, per il timore di venire segnalati.
Una limitazione significativa riguarda la possibilità di lavorare a giornata, e si aggiunge ai motivi per cui le uscite sono autorizzate (per andare in farmacia o al supermercato). Simile la situazione nella città di Kfarhabou, nel nord del paese: il coprifuoco per i siriani entra in vigore alle 3 del pomeriggio e si conclude alle 7 del mattino. A Darbaashtar è vietato ai siriani lasciare le proprie case o ricevere visite. E in almeno 18 comuni nella Valle della Bekaa, al confine con la Siria, dove vivono un terzo dei rifugiati siriani in Libano, sono state prese misure diverse: nel caso di Bar Elias ogni famiglia di rifugiati deve scegliere una persona a cui affidare i propri bisogni fondamentali e coordinare i propri movimenti con il comune.
 
Si diffonde la paura
Sicuramente le restrizioni non potranno che peggiorarare, dato che il 22 aprile è stato registrato il primo caso di coronavirus in un campo profughi (ma palestinese). Lo ha riferito l’agenzia governativa Nna, precisando che il paziente infettato da Covid-19 si trova nel campo profughi di Jalil, nella regione di Baalbeck, nella valle orientale della Bekaa. La Nna cita l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), secondo cui la paziente è una donna, originaria di un campo profughi in Siria, paese colpito da nove anni di guerra.
La donna è ora ricoverata in un ospedale di Beirut. A fine aprile in Libano si registravano circa 677 casi positivi e 21 decessi per coronavirus. Nel paese, afflitto da una crisi economica che rende incerta la vita, insieme al virus si diffonde la paura. Facile e pericoloso additare i siriani come untori, trasformandoli in capro espiatorio di profonde diseguaglianze sociali che feriscono, da anni, la Terra dei Cedri. L’epidemia sconvolge i popoli ricchi e in pace: figuriamoci quelli in crisi, e toccati da una guerra tra le peggiori degli ultimi decenni.
 
Chiara Bottazzi