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Giovedì 2 Luglio 2020
Grecia, la risalita interrotta   versione testuale
2 luglio 2020

Il sociologo e filosofo algerino Abdelmalek Sayad leggeva in ogni migrazione «l’occasione privilegiata (...) per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare, per portare alla luce o ingrandire ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale». Il fenomeno migratorio, e come esso viene trattato, è allora uno specchio importante dell’Europa, che oggi porta alla luce i suoi punti di forza e i suoi limiti.
La rotta dei Balcani, che interessa la Grecia, dalla quale anzi prende il via, è stata sotto l’occhio mediatico poco prima che il mondo si fermasse per il lockdown. Nel mese di febbraio migliaia di persone si sono trovate bloccate al confine tra Turchia e Grecia, generando scene che hanno ricordato l’emergenza rifugiati del 2015, quando imbarcazioni cariche di migranti partivano per il viaggio pericoloso che li avrebbe portati sulle isole greche.
Al tentativo di raggiungere l’Europa, a febbraio lo stato greco ha risposto brutalmente, schierando le proprie forze dell’ordine con manganelli, gas lacrimogeni e proiettili di gomma. La nuova “ondata” di persone in rotta verso l’Europa si è materializzata dopo che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato la riapertura delle frontiere del suo paese. Nel frattempo, la Grecia ha sospeso temporaneamente le richieste di asilo, dilatando i tempi di permanenza dei richiedenti in un limbo giuridico che è anche esistenziale.
 
La spregiudicata mossa della Turchia
In questo gioco di pressioni diplomatiche, e risposte disumanizzanti, la situazione si fa ancora più difficile ora che il virus chiama a far fronte a una crisi sociale ed economica inevitabile. Per comprendere quello che sta accadendo al confine tra Grecia e Turchia, bisogna tornare indietro, al mese di marzo 2016, quando Ue e Turchia raggiunsero un accordo per la gestione dei flussi migratori non programmati. Con quell’accordo, l’Europa lasciò alla Turchia il compito di fungere da scudo, per bloccare la cosiddetta “rotta balcanica”. L’Ue si impegnava a versare 6 miliardi di euro alla Turchia entro il 2019 per gestire l’enorme numero di profughi (principalmente siriani), mentre la Turchia garantiva di sorvegliare al meglio la propria frontiera.
Dalla fine del 2016 al 2019, l’accordo è più o meno risultato efficace (nonostante i suoi effetti umanamente e socialmente discutibili): il numero più alto di sbarchi, dopo gli accordi, si è registrato nel mese di settembre 2019 con 10.551 arrivi, dato comunque sensibilmente inferiore rispetto ai mesi del 2016. L’accordo però si è interrotto giovedì 27 febbraio 2020, quando Erdogan ha annunciato di aver aperto i confini del paese ai migranti siriani intenzionati a raggiungere l’Europa. Diversi osservatori hanno definito quella decisione una mossa strategica: volta a ottenere un aiuto in Siria, a chiedere ancora più soldi all’Unione europea, ad aumentare i consensi dell’opinione pubblica interna, facendo leva sul sentimento anti-rifugiati che si sta diffondendo sempre più fra la popolazione turca.
 
Diritti sospesi sulle isole
Sulle isole greche di Lesbo, Samos e Chios ci sono 5 hotspot destinati ad ospitare i flussi di migranti. La condizione vissuta in queste isole è figlia del cosiddetto “approccio hotspot”, portato avanti dalla Grecia dal 2016. In conformità alla legge 4375/2016, i centri avrebbero dovuto funzionare come centri di registrazione della domanda di asilo, in cui svolgere la registrazione e l’identificazione, il controllo medico e psico-sociale, la fornitura di informazioni, la gestione di persone con problematiche specifiche e l'avvio di ulteriori procedure amministrative.
L’“approccio hotspot” si poneva l’obiettivo di accogliere nei centri i richiedenti asilo fino a un massimo di 25 giorni. Ma in poco tempo questo traguardo è apparso impossibile da conseguire, dato l’alto numero di arrivi. Di fatto, le persone sono state ospitate nei centri per periodi più lunghi, addirittura fino alla conclusione delle procedure di riammissione e asilo.
Secondo le statistiche, negli hotspot greci sono trattenute oggi quasi 42 mila persone, che vivono in condizioni terribili. Molto spesso i campi non hanno le disponibilità per garantire il rispetto delle condizioni igienico-sanitario di base. Ancora oggi Moria, il campo profughi di Lesbo, è tristemente noto per il suo sovraffollamento. Secondo uno studio delle Nazioni Unite, il campo è attrezzato per circa 2.200 posti, ma ospita oltre 18 mila persone. Uomini, donne e bambini, a cui non vengono assicurati diritti di base, servizi e sicurezza.
 
Migranti tra virus e intolleranza
Negli ultimi anni, oltre alle notizie sul sovraffollamento e sulle deprecabili condizioni igienico-sanitarie dei campi profughi, giornalisti e operatori umanitari che lavorano in prima linea hanno riportato episodi di violenza sui migranti per mano dei militanti della formazione estremista di destra Alba Dorata o di gruppi locali appoggiati da fazioni di estrema destra.
Dopo la decisione del presidente Erdogan di aprire i confini della Turchia per lasciar partire migliaia di siriani (e non solo) verso l’Europa, i casi di violenza e xenofobia ai danni dei migranti, degli operatori e dei volontari delle ong nelle principali isole dell’Egeo e al confine greco-turco sono aumentati drasticamente.
Gli attacchi avvenuti a febbraio, poco prima del lockdown, sono peraltro solo i più recenti di una lunga fila di episodi analoghi. A Chios, ad esempio, un gruppo di persone ha appiccato il fuoco al deposito di Stay Human Odv, una onlus che dal 2018 gestisce la distribuzione di beni e servizi nel campo di Vial. Nei giorni precedenti, un gommone che trasportava 49 persone (18 bambini) è stato preso d’assalto da un motoscafo, alla cui guida c’erano uomini con il volto mascherato. Anche gli operatori delle ong sono bersaglio di atti violenti: a Lesbo il 3 marzo un gruppo di medici è stato attaccato da una folla che brandiva randelli dalla testa chiodata. 
Per quanto concerne la gestione dei flussi migratori in relazione al virus, il governo greco ha ordinato la sospensione delle attività e dei servizi erogati dalle organizzazioni che operavano nelle isole e all’interno dei campi. Nel mese di marzo, il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli (Ecre) ha giustamente posto all’attenzione delle autorità greche la necessità di adottare misure di contenimento alternative per assicurare la salvaguardia della salute dei rifugiati. In particolare, è stata richiesta la garanzia di effettuare i tamponi ai rifugiati e di riallocarli in sistemazioni dove è possibile garantire il mantenimento della distanza di sicurezza e norme igieniche di base, anche solo il semplice lavarsi le mani.
Il 20 aprile, il ministro greco per i migranti ha annunciato l’evacuazione di 1.500 persone tra i gruppi a maggior rischio dal campo di Moria. I profughi sono stati spostati in sistemazioni temporanee nella Grecia continentale. Nel frattempo, nei centri gli operatori sociali continuano a svolgere informative in lingua sul come proteggersi e cercare di evitare il contagio, e sono stati predisposti spazi di ricovero per fare fronte a eventuali casi di Coronavirus all’interno dei campi. A Moria, ad esempio, grazie al supporto della comunità del campo, sono state costruite 20 stanze per un totale di 80 letti, utilizzabili in caso di diffusione dell’epidemia con l’aiuto del personale medico.
Sebbene oggi il Coronavirus sembra lasciare quasi indenni i centri d‘accoglienza, il loro sovraffollamento rimane comunque un problema serio, da affrontare quanto prima.
 
Colpito il motore della ripresa
Stando alle stime della Commissione Ue il 2020, che si prospettava come un anno di risalita, potrebbe diventare per la Grecia un anno apocalittico. Nonostante il virus abbia sinora lasciato respirare il paese, lo “choc da pandemia” farà crollare il Pil greco del 9,7%, questa volta senza alcuna colpa. Non sfugge a nessuno che l’apocalisse arriva quando i greci erano appena usciti da una recessione devastante.
La pandemia colpisce il motore principale di crescita negli ultimi anni, ovvero il turismo, che rappresenta quasi il 20% del Pil greco. Oggi la Grecia ha un tasso di natalità tra i più bassi in Europa, il tasso di disoccupazione è al 16,3% e rischia quest'anno di tornare a crescere, nonostante un giovane su tre sia già senza lavoro. Così, mentre la popolazione greca cala ininterrottamente dal 2011, aumenta in modo drastico il numero dei giovani istruiti che scelgono di abbandonare il paese.
Di fronte a queste previsioni allarmanti, è compito fondamentale dell’Europa non lasciare solo un popolo in ginocchio e dimostrare unità e solidarietà. «Non sono un economista o un analista finanziario, sono solo un sacerdote e non capisco molto di Eurobond, Mes, Recovery fund - commenta padre Antonio Voutsinos, presidente di Caritas Grecia -. Ma so a quali sacrifici saremo chiamati. Per questo ribadisco: questo è il tempo dell’unità e della solidarietà. L’Europa non può e non deve mancare questo appuntamento. Ne va dalla sua storia», . 
 
Carmine Carinci, Felicia Pontello, Isabella Rabezza, Elena Severini