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Torino ha riscoperto la base   versione testuale
14 agosto 2020

«È tutto molto difficile – racconta Wally Falchi, responsabile del Centro d’ascolto diocesano di Caritas Torino –. Anche se l’emergenza sanitaria più acuta sembra essere passata, resta da capire come si potranno affrontare i danni che il lockdown ha prodotto, soprattutto tra le persone in situazioni di maggiore precarietà e fragilità».
Nei mesi dell’emergenza acuta, e poi in quelli delle fasi cosiddette 2 e 3, i servizi di carità di Caritas Torino non sono mai andati in quarantena; il centro d’ascolto “Due Tuniche” ha semplicemente modificato la modalità di ascolto delle persone, utilizzando i telefono, senza però interrompere il servizio. Anzi, dovendo far fronte a un incremento della domanda. «Dal 9 marzo a oggi sono state aiutate in totale circa 4 mila persone, un aumento del 130% rispetto alla normalità. Tantissime le richieste di cibo, cosa che non succedeva da anni, le richieste di pagamenti di utenze e di latte in polvere. Molto frequenti anche telefonate da parte di anziani, spesso soli, alcuni con figli in altre città, che non potevano più aiutarli né andare a trovarli».
 
Hanno bussato le partite Iva
La pandemia ha messo in crisi una pluralità di soggetti, secondo una stratificazione sociale assai complessa: così, oltre a chi ha aveva un lavoro in nero e alle persone che non hanno ancora ricevuto la cassa integrazione, o l’hanno ricevuta con forte ritardo, si sono rivolte ai servizi Caritas anche titolari di partite Iva (parrucchieri, ambulanti, artigiani) rimasti fermi durante il lockdown. Persone che, fino a quel momento, non avevano mai avuto bisogno di aiuto, ma che si sono viste costrette a rivolgersi ai servizi dell’organismo diocesano.
«La serrata delle attività produttive – spiega il direttore della Caritas diocesana di Torino, Pierluigi Dovis – ha portato con sé un diffuso senso di timore che, per le persone più fragili, ha significato perdita di speranza nel futuro immediato. E molti stanno perdendo la motivazione per ripartire. Soprattutto quanti avevano lavori in nero, i precari o le persone che vivevano grazie a una forma di solidarietà diffusa, ora indirizzata in altro modo. Chi era marginale si è trovato anche marginalizzato. Chi era solo si è trovato abbandonato. Chi era invisibile si è sentito inascoltato».
La pandemia ha modificato in maniera importante anche la percezione di sicurezza e dello stare insieme. «Luoghi, contesti e condomini che già erano caratterizzati da situazioni di disagio – dice ancora Wally Folchi – hanno visto peggiorare il clima sociale: isolamento, solitudine e senso di abbandono, insicurezza e difficoltà di accesso a beni alimentari di prima necessità sono solo alcuni degli elementi caratterizzanti di questo clima. Il nostro tentativo è stato garantire, per quanto possibile, una vicinanza a coloro che in nei momenti dell’emergenza si sono trovati a vivere un contesto di isolamento forzato. Grazie a un intenso lavoro di rete con Banco Alimentare, parrocchie, enti e associazioni private, ordine degli infermieri, Protezione civile e alcune aziende donatrici, siamo riusciti a organizzare una pizzata, una grigliata e un girotondo solidale in alcuni stabili della locale Agenzia territoriale della casa».
 
È tornata la relazione diretta
Eppure non tutto è stato fatica e inaridimento dei legami sociali. Nei mesi dell’epidemia sono emerse tante manifestazioni di solidarietà da parte di persone e aziende, che si sono interessate all’attività di assistenza promossa dalla Caritas diocesana. Aziende alimentari, imprenditori, fondazioni, oltre che naturalmente Caritas Italiana, e poi Banco Alimentare, Associazione Maria madre della Provvidenza e Banco sanitario hanno partecipato a un lavoro in rete potenziato, stringendo relazioni di bene che saranno fondamentali da ora in avanti».
Anche i dormitori Caritas, che hanno modificato il servizio, trasformando l’accoglienza serale in comunità aperta 24 ore su 24, sono rimasti attivi, garantendo l’accoglienza a 120 persone. «Abbiamo provveduto al distanziamento, a bonificare i locali e abbiamo fornito colazione, pranzo e cena agli ospiti – riepiloga Dovis –. Si sono potenziate anche le attività interne e l’ascolto delle persone, contenendo a volte la paura degli ospiti, cercando di rincuorarli e di offrire un po’ di speranza, ma principalmente cercando di trasmettere la sicurezza di non essere soli. Durante il lockdown anche le mense hanno continuato a erogare pasti, piatti pronti, colazioni e panini con servizio take way, registrando un incremento di utenza pari all’80%. Da luglio, poi, la mensa di via Capriolo ha ripreso la normale erogazione di cibo. Ogni sera tre turni di distribuzione garantiscono agli ospiti la possibilità di usufruire di un pasto caldo, seduti al tavolo e accolti dai volontari. Così è tornata anche la relazione diretta con gli ospiti».
 
Ci siamo sentiti poveri e fragili
La mobilitazione della diocesi torinese non si è limitata a questo. È stato infatti attivato anche un servizio dedicato di ascolto telematico “fraterno”, per rispondere alle tantissime richieste di conforto e sostegno per dare un senso alla lontananza forzata di tante persone dai propri familiari, alla sofferenza per la malattia o per la perdita di un congiunto. «Le persone che desiderano raccontare fatiche, solitudine o, se operatori sanitari, lo stress che vivono ogni giorno in ospedale – spiega Antonella Di Fabio, responsabile dell’Osservatorio delle povertà della Caritas torinese – ci possono contattare a una mail dedicata.Le richieste di aiuto sono smistate alla nostra équipe, composta da sacerdoti, religiose, diaconi permanenti e laici, che si attivano immediatamente».
«In questo periodo – conclude Pierluigi Dovis – ci siamo sentiti poveri e fragili come lo sono i nostri amici ospiti. Abbiamo capito che dovrà cambiare lo stile delle relazioni di aiuto e che qualche servizio andrà rimodulato. Abbiamo sperimentato la bellezza, ma anche la fatica e talora la disillusione, della collaborazione con altri attori istituzionali, e questo farà scuola. Abbiamo trovato molta solidarietà a tutti i livelli, che andrà coltivata e fatta maturare in modo che diventi strutturale. Ma abbiamo anche riscoperto la base del nostro servizio: mettere il nostro cuore vicino a quello dell’altro, quando siamo costretti a stare lontano e quando saremo di nuovo vicini».
 
Ettore Sutti