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Somalia, nazione a frammenti   versione testuale
9 novembre 2020

Failed state. Stato fallito. Così viene bollata, stigmatizzata da un’espressione che ha valore di lettera scarlatta, la nazione somala dalla totalità del mondo accademico e giornalistico. Una nazione incapace di garantire i servizi essenziali alla popolazione; un paese senza sicurezza, in cui mancano i basilari riferimenti istituzionali.
La Somalia è il paese, nel mondo, che da più tempo vive condizioni di fragilità estrema. Secondo l’Indice di fragilità dell’organizzazione Fund for Peace, è l’unico che negli ultimi 13 anni si è mantenuto costantemente ai primi tre posti di questa desolante classifica, costruita in base a 12 indicatori di vulnerabilità. Nel 2020 la Somalia è stata il secondo paese più fragile al mondo, preceduta dallo Yemen e seguita in coda da Sud Sudan e Siria, lacerate da molti anni di guerra.
La fragilità della nazione somala è ben spiegata dall’etimologia della parola fragile: da frangere, fragmentum, quindi “pezzo”, “frammento”. Frammentata com’è in una molteplicità di etnie, clan, stati e aspirazioni autonomistiche, infatti, la nazione che ha per capitale Mogadiscio rappresenta il tipico caso di paese dove la pericolosa sinergia di fragilità istituzionale, violenza e cambiamenti climatici produce effetti devastanti.
Nei primi otto mesi del 2020, per esempio, circa 700 mila somali sono stati costretti a fuggire dalle proprie case a causa delle alluvioni e circa altri 200 mila a cause di espulsioni, insicurezza, violenze. Allo stesso tempo, una tremenda invasione di locuste e il Covid-19 hanno colpito ulteriormente le già fragili capacità di sussistenza della popolazione. Per queste ragioni, la situazione umanitaria nel paese è di nuovo molto grave, soprattutto sul fronte dell’accesso al cibo per le categorie più vulnerabili. Secondo le Nazioni Unite, circa 5,2 milioni di persone, pari a un terzo della popolazione, necessitano di assistenza umanitaria, 2,1 milioni sono in condizione di grave insicurezza alimentare, 850 mila bambini sotto i 5 anni necessitano di trattamenti urgenti per il supporto nutrizionale.
 
Covid interrompe la crescita
I più vulnerabili restano i circa 2,6 milioni di sfollati, largamente dipendenti dall’assistenza umanitaria. Essi sono localizzati intorno a 2-300 insediamenti, sparsi per tutta la Somalia in zone urbane e periurbane; per l’80% dei casi si tratta di insediamenti informali, che utilizzano anche alloggi privati. Per quanto riguarda invece i rifugiati somali all’estero, essi sono ospitati per la gran parte nei paesi confinanti (Kenya, Etiopia, Gibuti, Yemen) e sono circa 820 mila.
I problemi umanitari che minano in profondità l’unità e il benessere del popolo somalo, interessano comunque diversi gruppi sociali. L’insicurezza e la violenza diffusa fanno sì, per esempio, che la Somalia nel 2020 sia tristemente in testa, nella classifica realizzata dal Rapporto annuale del Rappresentante speciale Onu su bambini e conflitti armati, in 3 delle 6 categorie che riguardano le gravi violazioni contro i minori (reclutamento e uso dei bambini soldato, stupri e altre forme di violenza sessuale, rapimenti).
Come detto, anche il Covid-19 non ha risparmiato la Somalia: i casi sono poco meno di 4 mila, ma i testi effettuati si limitano solo a quelli altamente sintomatici. L’impatto maggiore dell’epidemia riguarda ad ogni modo soprattutto il versante economico, e ha interrotto il trend di crescita che il paese aveva registrato negli ultimi anni.
 
Verso un “ibrido democratico”?
Degli immensi problemi umanitari della Somalia si occupa il dossier Nazione a frammenti, pubblicato a ottobre da Caritas Italiana, una delle iniziative promosse per ricordare Graziella Fumagalli, nel 25° anniversario della sua morte. Il dossier indaga però anche le ragioni della fragilità istituzionale della Somalia, causa delle crisi multiple che affliggono il paese.
Tali ragioni affondano le radici nella storia travagliata del paese. Divenuta indipendente nel 1960 dal controllo coloniale inglese (a nord) e italiano (centro-sud), la Somalia nel 1969 subì il colpo di stato militare che sancì l’ascesa al potere del generale Mohamed Siad Barre. La dittatura accentrò il potere intorno al clan di Barre (Marehan-Darood) e sfociò in una guerra civile con le forze di opposizione organizzate nei diversi clan.
L’organizzazione della società su base clanica rimarrà un elemento fondamentale dell’evoluzione del conflitto in Somalia. Siad Barre fu destituito nel 1991; seguirono anni di guerra tra i diversi cartelli clanici guidati dai signori della guerra, segnati da un’anarchia permanente, da cui il paese non si è più ripreso. Gli anni Novanta furono caratterizzati dalle fallimentari operazioni militari delle Nazioni Unite, degli Usa e dell’Italia, degli scandali della cooperazione italiana, da delitti rimasti senza giustizia, come gli omicidi di Graziella Fumagalli, medico di Caritas Italiana nel centro antitubercolare di Merca, e dei giornalisti Rai Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Negli anni Duemila, invece, prese piede il principale gruppo dell’integralismo somalo, l’Unione delle Corti Islamiche, che riuscì ad imporsi sui signori della guerra nel 2006, per poi essere spodestato, di lì a poco, dalle forze etiopi, lasciando il campo al terrorismo fanatico degli al-Shabaab, composto da autoctoni facenti capo ad Al Qaida, che presero il controllo di gran parte del territorio del centro sud del paese. Tale controllo persiste ancora oggi.
L’attuale situazione politica continua a essere aggrovigliata e instabile, in un confuso “stallo” belligerante. A livello internazionale, è stata riconosciuta la Repubblica Federale della Somalia, istituita nel 2012 con capitale Mogadiscio e composta da 6 entità statali. Ma il territorio somalo rimane ampiamente fuori del controllo del governo federale: nel nord le autorità indipendentiste di Somalilnad e Puntland di fatto governano in modo autonomo, con alcune aree in mano a milizie e fazioni claniche, nonché a cellule dell’Isis; il centro-sud resta invece conteso tra autorità governative, al-Shaabab, altri gruppi radicali, milizie di clan.
Gli al-Shabaab, nonostante le sconfitte militari subite grazie all’appoggio fornito al governo somalo de Etiopia, Kenya, Usa ed Unione Europea, riescono a esercitare un controllo molto vasto sulla popolazione nelle aree rurali (e non solo), e rappresentano ancora oggi la principale minaccia alla stabilizzazione del paese. In questo scenario, non poche ombre incombono sulle prossime elezioni, previste per il 2021. A differenza di quanto inizialmente stabilito, esse non saranno a suffragio universale, ma seguiranno il sistema clanico, utilizzato nelle precedenti tornate elettorali. La scelta risponde al fatto che il sistema dei clan continua a essere il più importante fattore sociale in Somalia e l’affiliazione ai clan il principale fattore di identità collettiva, oltre che organizzativo (anche per la struttura del governo).
Dopo lunghe trattative, l’ipotesi “una persona un voto” è stata dunque abbandonata anche dagli organismi internazionali, in quanto impraticabile nelle attuali condizioni della Somalia. Il sistema elettorale su base clanica prevede che ciascuno dei 4 principali clan abbia pari rappresentanza, mentre i clan più piccoli ottengano il resto dei seggi assegnati o delle nomine governative. Il sistema elettorale sarà però più rappresentativo che in passato, in quanto i 275 membri del parlamento saranno eletti da un numero di delegati dei clan più che doppio rispetto al 2017.
Il governo somalo ha insomma rinviato l’applicazione di riforme democratiche più radicali, richieste dalle Nazioni Unite. La sfida resta conciliare il riconoscimento delle autorità claniche tradizionali con sistemi maggiormente democratici, senza necessariamente realizzare copie dei modelli occidentali, ma delineando un “ibrido democratico” ad hoc, specifico per la nazione somala. Una sfida difficile, ma forse non impossibile.
 
Ruolo secondario dell’Italia
Anche a livello internazionale, la situazione non è affatto chiara. Il governo somalo è sostenuto dall’Unione Africana con la missione Amisom, che conta circa 20 mila soldati (di Uganda, Burundi, Etiopia, Kenya), dall’Unione Europea nella lotta alla pirateria e con aiuti umanitari, dagli Usa sul piano militare nella lotta ad al-Shabaab soprattutto con l’impiego di forze speciali e dei discussi raid aerei con droni (denunciati da Amnesty International per le numerose vittime tra i civili).
Vi sono poi la Turchia, probabilmente l’attore, oggi, con il più ampio spettro di impegno e influenza nel paese, e i paesi del Golfo, sostenitori dell’Unione delle Corti Islamiche, che hanno esercitato una rilevante influenza politica, sfruttando reti personali e religiose attraverso ampie riserve di danaro da erogare agli elettori dei diversi clan. Infine, i confinanti Kenya ed Etiopia hanno interesse alla stabilizzazione del paese, data la presenza nei loro territori della gran parte dei rifugiati somali, ma considerati anche gli interessi economici connessi alle risorse energetiche scoperte nel paese e le minacce alla sicurezza interna, costituite dai gruppi radicali presenti in Somalia.
Per quanto riguarda l’Italia, il rapporto con la Somalia è stabile e cordiale, ma incentrato prevalentemente sull’aiuto umanitario e sull’addestramento del personale militare. Molti somali lamentano il ruolo secondario del nostro paese nella fase attuale. Indubbiamente oggi la politica italiana in Somalia è debole e sconta la riduzione di interesse per la politica estera che i vari governi italiani hanno mostrato nell’ultimo ventennio.
Insomma, interessi particolari, ambiguità o impegni parziali da parte dei diversi attori internazionali non sempre favoriscono il processo di rafforzamento delle autorità federali e di stabilizzazione del paese.
 
Controllo competitivo
La competizione per risorse scarse, essenzialmente acqua e terra, combinata con un conflitto politico tra i clan per il controllo delle istituzioni locali (statali o federali) e con una tensione ideologica, in particolare tra le dottrine sufi e salafi dell’Islam sunnita, rappresentano le diverse forme di conflitto che interagiscono tra loro in Somalia. Esso assume dunque le caratteristiche di un conflitto irregolare, in cui è coinvolto almeno un gruppo armato non statale (in questo caso più di uno).
Una chiave di lettura per spiegarne le dinamiche è la teoria del “controllo competitivo” elaborata dallo studioso David John Kilcullen. Secondo questa tesi le popolazioni rispondono a un insieme di regole (sistema normativo) prevedibili e ordinate, che dicano loro cosa fare e non fare per stare al sicuro. Chi controlla il sistema normativo stabilisce le regole, concede vantaggi per il loro rispetto e infligge punizioni per la loro violazione. Tuttavia, questo spazio è contestato ed è la prevedibilità, non il contenuto, né la popolarità dell’attore a generare una sensazione di sicurezza e a consentire dunque a un attore di prevalere sugli altri. In altre parole, non è fondamentale che alla popolazione piacciano gli al-Shabaab o che siano d’accordo con le loro regole: la creazione di uno spazio normativo chiaro, coerente e prevedibile, che essi consentono più di altri soggetto istituzionali, ha un effetto attraente su gran parte della popolazione.
Questa capacità attrattiva dipende dalla capacità di esercitare tre funzione fondamentali:
  • la persuasione: ovvero la capacità di fornire e diffondere argomenti e incentivi a sostegno delle regole dominanti. Esempi ne sono la propaganda, la mobilitazione politica e ideologica, la pressione sociale, la manipolazione dell'identità collettiva a fini politici;
  • l’amministrazione: sono i sistemi giudiziari, la mediazione e i meccanismi di risoluzione delle controversie, la fornitura di servizi essenziali e le istituzioni sociali ed economiche;
  • la coercizione: le sanzioni che impongono costi a chi infrange le regole.
 
Governo frenato dalle divisioni
In Somalia, diverse milizie di clan si sono scontrate e continuano a scontrarsi fra loro. Le più forti hanno controllato importanti porzioni di territorio per periodi relativamente brevi, ma non sono mai riuscite a consolidare il controllo su territori popolati da altri clan. Al-Shabaab invece è riuscito a espandere la sua influenza, focalizzandosi sulla creazione di un ampio quadro normativo. Ha una buona organizzazione, la sua propaganda fornisce motivazioni, forma bene i suoi combattenti e dispone di armi. Il fattore chiave è che l’obiettivo principale del gruppo è conquistare le persone, vincere la guerra è un sottoprodotto.
In questa situazione, la sfida per il governo centrale è superare questo insidioso rivale nell’intero spettro di fattori che va dalla persuasione alla coercizione, stabilendo un sistema normativo incontrastato su popolazione e territorio. Ma il governo somalo, in realtà, non è riuscito sinora a trovare una formula che permetta di superare le divisioni fra i clan e i loro antagonismi. È su questo versante che le istituzioni somale dovrebbero essere sostenute: da un lato nella ricerca di un assetto istituzionale con un giusto bilanciamento di potere tra governo centrale e stati federali, che aiuti a rafforzare l’unità nazionale; dall’altro, con investimenti non solo sul piano militare o dell’aiuto umanitario, ma anche nella costruzione di infrastrutture sociali ed economiche in grado di rispondere ai bisogni della popolazione.
 
Il ruolo della Chiesa cattolica
La storia della Chiesa in Somalia è una storia di testimonianza e martirio. Con la deflagrazione dello stato somalo, anche la Chiesa si è via via dispersa. Dopo l’uccisione del vescovo di Mogadiscio, monsignor Salvatore Colombo, avvenuta già nel 1989, molti altri assassini si sono susseguiti: quelli di padre Pietro Turati, di Graziella Fumagalli, Annalena Tonelli, suor Leonella Sgorbati (quest’ultima beatificata nel 2018) e altri.
Nel 2006, le ultime quattro religiose rimaste in Somalia lasciarono il paese. Padre Giorgio Bertin, in veste di Amministratore apostolico della diocesi di Mogadiscio, ha continuato a sostenere e ad assistere la piccola comunità di somali cattolici e la popolazione locale più vulnerabile, prima dal Kenya e poi da Gibuti (di cui è vescovo). Intanto, da tre anni un sacerdote è potuto tornare nella missione di Hargheisa (Somaliland): è questa, oggi, l’unica presenza permanente, anche se con forti limiti.
L’impegno della Chiesa è duplice: in primo luogo, sollecitare la comunità mondiale a non dimenticare la Somalia; d’altro canto, proseguire nella testimonianza di solidarietà, cercando di costruire ponti di dialogo e unione fra tutti i frammenti di una nazione deflagrata.
 
Fabrizio Cavalletti