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Mercoledì 26 Maggio 2021
Turchia, dove il viaggio si arena   versione testuale
26 maggio 2021

La Turchia è una tappa forzata lungo una delle maggiori vie mondiali di migrazione umana. Un passaggio obbligato dei flussi che dal Medio ed Estremo Oriente si muovono verso l’Occidente. E alle porte dell’Europa, all’imboccatura della così detta Rotta balcanica, milioni di rifugiati, fuggiti dall’orrore della guerra, provenienti per lo più dalla Siria, sono stati respinti e bloccati.
La Turchia ha una popolazione di 84 milioni di abitanti, il 4,7% dei quali sono individuati come migranti o richiedenti asilo. Si tratta di una componente non esigua della società turca. Eppure nel paese la Convenzione di Ginevra del 1951, pur sottoscritta dallo stato turco, per legge viene applicata “solo a persone che sono diventate rifugiati a seguito di eventi accaduti in Europa”. Pertanto, per poter accogliere la maggior parte dei migranti, che provengo da stati non europei, sono stati trovati e vengono applicati escamotage giuridici e burocratici, in base ai quali Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) e ministero dell’Interno concedono congiuntamente una protezione limitata, in base a diverse tipologie di status temporaneo (status di rifugiato condizionale, permesso di soggiorno umanitario, protezione temporanea).
Nel dettaglio, i rifugiati rappresentano la gran parte degli stranieri presenti nel paese: sono 3,65 milioni, a cui si aggiungono quasi 330 mila richiedenti asilo. In questa ultima categoria vanno annoverati 173.250 iracheni, 116.400 afgani e 27 mila iraniani. I siriani rappresentano invece circa il 90% del totale dei rifugiati e, sebbene non possano ottenere lo status di rifugiato regolare, beneficiano di protezione temporanea, in virtù della quale, nel corso degli anni, si sono visti riconoscere maggiori diritti e tutele da parte delle autorità turche.
 
In una specie di limbo
Gli oltre 3,5 milioni di siriani, insieme ai rifugiati e richiedenti asilo provenienti da altri paesi, per il 98% vivono accanto alle comunità ospitanti turche, mentre solo una minima parte risiede in centri di accoglienza temporanei, gestiti dallo Stato attraverso la Direzione generale della gestione delle migrazioni della Turchia. La maggior parte dei rifugiati si concentra nella città di Istanbul e nelle province di confine con la Siria, ovvero Hatay, Gaziantep e Nanliurfa. Più di un quinto dei rifugiati in Turchia sono minori, mentre il 71,4% ha un’età compresa tra 19 e 65 anni.
Nonostante l’obiettivo della maggior parte dei rifugiati non sia rimanere nel paese, ma piuttosto spostarsi verso gli stati dell’Europa occidentale, o far ritorno in patria, il perdurare delle crisi in Medio Oriente e la chiusura della Rotta balcanica, in seguito agli accordi tra Turchia e Unione europea, hanno costretto milioni di persone a rimanere per anni in una specie di limbo. Parte di loro si è integrata in Turchia, e ha avviato attività lavorative ed economiche; molti altri invece rimangono semplicemente bloccati in una sorta di terra di mezzo, nella speranza di ripartire.
Mohamad, detto Ricky, lavora per l’ufficio diocesano di Istanbul di Caritas Turchia. Ha lasciato l’Iraq, dove lavorava in una società privata, nel 2013. Il suo lavoro lo portava spesso a muoversi da città a città, all’interno del suo paese d’origine. Ma essere cristiani, come lo è Ricky, era complesso e pericoloso; significava essere facili target di rapimenti o addirittura uccisioni, e con il violento espandersi dello Stato Islamico il clima si era fatto ancora più pericoloso. Così, quando ricevette una telefonata di minacce, Ricky decise che era giunto il tempo di partire. E sebbene la sua fuga sia avvenuta in aereo, si è trattato, confessa l’uomo, di un viaggio «pieno di dolore e paura», come succede quando si è costretti a lasciare tutto dietro di sé.
Appena arrivato a Istanbul grazie a due amici, incominciò a frequentare la comunità salesiana, e a impegnarsi in attività educative, prestando volontariato come interprete. «È stato molto incoraggiante e di supporto», spiega oggi. Tramite quei primi incarichi, ha incominciato a essere attivo in Caritas Turchia, prima come volontario nel centro di ascolto diocesano, ora come assistente di progetto. Ma sebbene il servizio che sta svolgendo gli piaccia, anche per lui la Turchia non sembra essere la tappa finale del viaggio. Aspetta, infatti, l’approvazione di un visto per l’Australia: «Ho molti parenti lì che mi possono sostenere», chiarisce.
 
Sforzi ancora insufficienti
In effetti, per quanto lo stato turco cerchi di provvedere ai bisogni primari dei rifugiati, questi sforzi continuano a essere insufficienti, e la precarietà delle condizioni di vita dei rifugiati rimane alta, e piuttosto deludenti le prospettive per il futuro. Su 2,16 milioni di siriani in età lavorativa, si stima che meno della metà siano inseriti nel mercato del lavoro, la maggior parte dei quali informalmente, in lavori scarsamente qualificati e poco retribuiti. Inoltre le barriere linguistiche e l’accesso limitato alle informazioni e ai servizi contribuiscono a spiegare perché i rifugiati che lavorano formalmente e che sono in possesso di un permesso di lavoro siano pochi.
È inevitabile che, in questo scenario, si manifestino fenomeni di sfruttamento e di esclusione sociale, nonché un ampio radicarsi della povertà. Per questa ragione Caritas Turchia, dal 2018, attraverso i tre uffici diocesani di Istanbul, Anatolia e Smirne, lavora per sostenere i migranti. Il progetto “Accogliere e integrare famiglie e minori migranti in Turchia” è supportato da Caritas Italiana, attraverso un finanziamento dalla Conferenza episcopale italiana.
Anche se sono molti i casi di rifugiati che si sentono accolti e sostenuti dalle comunità locali, nell’intero paese non mancano episodi di ostilità nei loro confronti. In generale, il sostegno fornito ad esempio ai siriani è percepito dalla popolazione turca locale come esito di un atto di carità e solidarietà religiosa, non come affermazione e riconoscimento di un diritto. Spesso i siriani sono visti come ingiusti beneficiari delle risorse limitate di un paese in cui molti cittadini vivono in povertà. Sono spesso accusati, tra le altre cose, di causare un aumento degli affitti, di competere con la popolazione locale per i posti di lavoro, di abbassare i salari lavorando illegalmente, di sovraffollamento e di rendere i servizi pubblici (a cominciare dall'assistenza sanitaria) meno accessibili alla popolazione locale.
Una ricerca del 2014, condotta in 18 città della Turchia, aveva evidenziato che la metà dei turchi rispondenti «non voleva avere come vicino un siriano». Ancora oggi, la percezione generale che «l'Europa stia facendo di tutto per tenere lontani i siriani» aggrava la situazione. Anche per questa ragione, l’intervento messo in atto da Caritas in Turchia non solo si sta spostando da un approccio emergenziale a uno centrato sull’integrazione, ma sempre più tiene in conto le necessità di coinvolgimento delle comunità locali e di risposta alle loro vulnerabilità, amplificate dal diffondersi della pandemia di Covid-19.

Vulnerabilità locali
È il caso della famiglia Bekfelavi, che vive nella diocesi dell’Anatolia. Berkant ha 53 anni, è sposato, ha 2 figli. A causa di un intervento chirurgico al cervello, è costretto a camminare con le stampelle, ha difficoltà a parlare e anche la sua capacità di usare le mani è piuttosto ridotta. Essendo stato un manovale, le sue possibilità di trovare lavoro sono oggi praticamente nulle, ed è costretto a sopravvivere con i sussidi dei servizi sociali, circa 90 euro al mese. Il reddito familiare proveniva dal lavoro del figlio maggiore, che purtroppo ha perso, a causa della crisi economica derivata dalla pandemia. Come se non bastasse, la moglie lo ha lasciato e il padrone di casa lo ha sfrattato, non essendo più in grado di pagare l’affitto.
Berkant si è trovato dunque a dormire nel parco di Iskenderun, mentre i figli hanno chiesto ospitalità a un amico. L’équipe della Caritas della diocesi dell’Anatolia lo ha incontrato presso i servizi sociali pubblici, ne ha ascoltato la storia e ha deciso di intervenire per cercare di farlo uscire dalla spirale di disperazione in cui è caduto. Per prima cosa sostiene il pagamento dell’affitto della casa e gli fornisce un pacco alimentare. In secondo luogo, sta cercando di aiutare il figlio a trovare un nuovo posto di lavoro. Per quanto lanciata, negli anni pre-pandemici,in un’importante fase di sviluppo, la società turca non manca di ampie sacche di fragilità sociale. Affrontare queste ultime, acuite dall’emergenza sanitaria, è condizione necessaria per rendere accettabile e credibile anche il lavoro con i migranti. Quelli che aspettano di sapere, un giorno, se il proprio viaggio potrà riprendere.
 
Alessandro Cadorin e Silvia Patorutti