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 Lampedusa. Nell'emergenza, la riscoperta della propria identità
e l'organizzazione della solidarietà 
Mercoledì 27 Luglio 2011
Lampedusa. Nell'emergenza, la riscoperta della propria identità
e l'organizzazione della solidarietà   versione testuale
di Paola Ortensi, associazione La Lucerna
 
I cinquanta giorni dell’emergenza e la prima organizzazione della solidarietà
  
Nel febbraio 2011 Lampedusa sale alla ribalta delle cronache di giornali e telegiornali. Un’emergenza annunciata scoppia e sembra trovare tutti impreparati. Migliaia di profughi, immigrati, traversano il canale di mare che separa l’Africa dall’Europa, dall’Italia. Sono tunisini, marocchini e gente proveniente da Paesi del centro Africa. Affrontano un mare spesso in tempesta, molti non ce la faranno perché le imbarcazioni nelle quali vengono caricati sono state definite “carrette del mare”. E per molti di loro, che si sono affidati agli scafisti, il viaggio di speranza diventa un viaggio senza ritorno. Il Mare Mediterraneo diventerà la loro tomba.
  
In poco tempo la piccola isola, di soli 5.000 abitanti, vede la popolazione più che raddoppiata. Un insieme di volti chiari, scuri, gente che parla lingue diverse. In 50 lunghi giorni approdano sulle sue coste oltre 6.000 persone e inizia l’emergenza. Il Centro di accoglienza è chiuso da due anni, il Governo è assente. La popolazione è sola ad affrontare la situazione. Le cronache dei giornali e delle televisioni si riempiono di notizie allarmanti; l’isola vede gente ammassata nel porto, su una collina vicina, che viene chiamata “collina della vergogna”. E la gente che approda ha bisogno di tutto: acqua, cibo, coperte, vestiario, cure mediche… E tutti si danno da fare, svuotano frigo e danno fondo alle  provviste, portano le coperte che hanno, conducono con sé, a casa, i piccoli, più fragili, per lavarli dopo giorni di traversata difficile, curarne le ferite e le piaghe che la permanenza in barca ha procurato, dare loro da bere e da mangiare e li riportano poi alle loro mamme. I commercianti offrono merce, quello che hanno. Ma i giorni passano e la solitudine della popolazione aumenta.
  
E i lampedusani si stringono attorno a loro e si prestano con generosità, riscoprendo identità e valori forse sopiti; e, in particolare, l’identità di gente di una piccolissima isola all’estremo Sud dell’Italia e dell’Europa, più vicina geograficamente alla Tunisia. Isola lontana dal pensiero e dalle preoccupazioni dell’Italia. La gente di Lampedusa e di Linosa – altra piccola isola che fa parte dello stesso comune e partecipa all’emergenza con piccole forme di accoglienza temporanea, dato il numero degli abitanti, appena 300 – è gente di mare, pescatori, abituati a dare soccorso a chiunque in mare si trovi in difficoltà e in pericolo di vita. Gente che ha vissuto il dramma dell’emigrazione forzata per cercare lavoro; che sa le sofferenze di chi parte e lascia famiglia, affetti, patria e tutto il resto per trovare una soluzione alla fame e alla mancanza di lavoro per sé e per la famiglia.
 
I valori di solidarietà, che si manifestano in questa occasione, hanno bisogno di trovare un punto di organizzazione, di aggregazione, che non faccia rischiare di perdere il bello che si sta costruendo. La comunità parrocchiale si organizza, offre spazi, mette insieme gruppi di volontari, fa appelli alle Chiese sorelle d’Italia perché vengano in loro soccorso. Nei 50 giorni dell’emergenza, come riconosciuto da tanti, anche da coloro che non fanno parte della comunità ecclesiale, è la gente, organizzata dal parroco, don Stefano Nastasi, che con il Consiglio pastorale parrocchiale e con la Caritas parrocchiale, si fa prossimo e non lascia soli i profughi, senza dimenticare la gente dell’isola, allo stremo delle forze per l’impegno prodigato e la solitudine vissuta.
  
Visita a Lampedusa
 
Una piccola delegazione de La Lucerna, laboratorio Interculturale, impegnata da 10 anni con persone immigrate, rifugiate, richiedenti asilo, alla quale si è affiancata una missionaria scalabriniana, ha deciso di trascorrere una settimana nelle due isole. La visita aveva lo scopo di “ascoltare”, conoscere la situazione, rendersi conto di ciò che era accaduto nei primi giorni dell’anno e di cui ancora si sente parlare, in modo sommesso e quasi nascosto nelle cronache correnti.  Siamo arrivate in quattro a fine giugno.
 
Gli incontri, tutti di una grande significatività, ci hanno fatto scoprire la ricchezza della gente, la disponibilità a “perdere tempo” con noi per dirci come hanno vissuto quei momenti e quali conseguenze tutto ciò sta avendo su di loro. Abbiamo incontrato il parroco, membri del Consiglio pastorale e della Caritas, gestori di bar e residence, commercianti; abbiamo parlato con  le persone di un gruppo di volontariato, Askavusa, che da tre anni organizza nell’isola l’evento interculturale e artistico “Lampedusainfestival” e si sta battendo per realizzare nell’isola un Museo dell’Immigrazione, dove raccogliere i materiali che il mare riporta a riva o ciò che si trova nei relitti delle barche degli immigrati: Corani, vestiti, pentole, lampade, ancore, pezzi di legno, scarpe, foto, lettere…
  
Attraverso di loro avvengono altri incontri, con il falegname – artista che dal legno delle barche ha ricavato delle croci, donate al vescovo, al parroco, portata al Papa; con artisti di strada, che lavorano la pietra dura, l’argento, il filo per farne lavoretti di macramè. A Linosa siamo stati accolti nel prefabbricato di Francesca, Claudia e Giuseppe, centro di immersione e di pesca subacquea. A tutti e tutte siamo debitrici di una accoglienza senza riserve, generosa, e pronta a donarci qualcosa di loro, del loro amore per queste isole, dalla natura incontaminata.
 
Siamo andate alla porta d’Europa, che però giace in stato di abbandono. Abbiamo visitato il piccolo cimitero dell’isola di Lampedusa dove una piccola parte è dedicata ai profughi senza nome e dove persone pietose hanno portato dei fiori accanto alla croce. In alcune tombe senza nome c’è un numero, forse unico elemento di identificazione di uno degli emigrati morti e di cui forse la famiglia lontana non sa dove si trovino le spoglie.
 
Tutto nella visita ha avuto un senso. Specie gli incontri e la relazione con le persone. Abbiamo visto pochi immigrati, perché ormai la “macchina organizzativa” del Governo funziona, al punto che le persone che sbarcano sono diventate “invisibili”. Non si sa quando arrivano, ma lo si percepisce dal rumore degli elicotteri e dalle sirene con le ambulanze, che indicano che qualcosa è avvenuto o sta avvenendo. Poi, allo sbarco, gli organismi a ciò preposti, come Cri, Medici Senza Frontiere, Protezione civile… provvedono all’avvio della gente in ambulanze al Pronto soccorso o ai due Centri di accoglienza dell’isola, da dove il giorno successivo verranno inviati ad altre destinazioni dei Centri d’Italia.
 
L’aspetto triste della vicenda di queste due isole è che l’emergenza vissuta al riflettore delle cronache e nella solitudine in cui sono stati lasciati dalle istituzioni, ha fatto crollare il turismo, risorsa principale del luogo. La crisi si fa già sentire pesante a inizio luglio e si teme che possa avere conseguenze ancora più disastrose nelle prossime stagioni e in futuro. E a tutto ciò si aggiunge forse la contraddizione di avere vissuto 50 giorni insieme con i profughi e ora non sapere più niente di loro, non vederli più, non sapere dove sono andati i primi e dove sono destinati gli ultimi arrivati. Ci si percepisce come usati e strumentalizzati per qualche disegno più grande di loro, incomprensibile. Tuttavia la gente è pronta a reagire.
 
Un ponte tra passato e futuro. Lampedusa “capitale dell’Amore”
 
Il parroco ci dice che ciò che ovunque è normalità, diventa qui straordinarietà, come l’arrivo di un quotidiano o il rifornimento di frutta e verdura quando il mare è grosso. E in questa situazione di straordinarietà è avvenuta l’emergenza. È necessario andare a Lampedusa e Linosa per rendersene conto. La natura è molto bella e incontaminata, le cale si aprono sul mare di un blu intenso; si vedono poche vestigia di opere murarie di tempi antichi, che andrebbero valorizzate…
  
E la gente, che ha vissuto la contraddizione dell’emergenza per 50 giorni, non si deve pentire di essere stata solidale. E il patrimonio culturale dell’isola non dovrà andare disperso. È questo forse l’impegno principale che la comunità parrocchiale avrà da affrontare. Da un lato non fare perdere la memoria della significatività di ciò che hanno vissuto, dall’altro ricostruirsi come comunità a partire dal quotidiano. Si tratta di creare un ponte tra i valori del passato, legati strettamente alla cultura del paese, e i valori su cui puntare per una realtà diversa, un modello di solidarietà da diffondere anche ad altre realtà italiane.
  
La comunità parrocchiale, impegnata in prima linea nell’organizzare la solidarietà nell’emergenza, ha saputo, in questa occasione, legare la vita di fede – con momenti di preghiera e celebrazione dei sacramenti e di ascolto della Parola – con la quotidianità e con lo stimolo alle istituzioni a dare segni di presenza. Inoltre si è impegnata nel cercare di attivare altre presenze di volontariato per ridare vitalità alla gente e stimolarla a rendersi protagonista, nel valorizzare le opere antiche del luogo, i luoghi naturali, il turismo non più di massa, ma intelligente e responsabile, attento all’arte, alla cultura, alla natura delle isole.
  
E in questo impegno si aggiunge la presenza significativa del vescovo di Agrigento, mons. Franco Montenegro. Sembrano significative alcune frasi dell’Omelia del vescovo, che non ha lasciato sole le popolazioni di Lampedusa e di Linosa nei giorni dell’emergenza. Egli ha voluto trascorrere in questi luoghi tre giorni, dalla veglia pasquale al Lunedì dell’Angelo. Nella veglia egli ha detto, tra l’altro: «Nella nostra famiglia  in questo momento, sono gli abitanti di Lampedusa ad avere bisogno di tutta la nostra vicinanza e il nostro affetto… Per noi la Pasqua ha un significato, non è un ricordo…».
 
Durante la celebrazione dell’Eucaristia ha mostrato ai fedeli raccolti in preghiera il suo “bastone pastorale”; non è di argento o di oro, ma di legno, e ha detto: «Questo è il pastorale che mi avete regalato e lo porto con me. È fatto con il legno delle barche degli immigrati». Un artista dell’isola, Franco Tuccio, lo ha preparato per lui e insieme con il parroco glielo hanno voluto donare in segno di riconoscenza per la sua vicinanza con loro.
  
E aggiunge ancora: «Voi state costruendo un mondo diverso con l’amore. Se la Pasqua è il volto di un mondo nuovo devo dirvi Buon Anno. È l’anno nuovo che voi avete fatto nascere. Lampedusa è diventata capitale dell’amore. In un mondo che rischia di diventare disumano, voi avete fatto questo».