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Sfruttati (nei campi) a tempo pieno
31 agosto 2020

Lo sfruttamento dei braccianti stranieri nelle campagne italiane. L’operato dei soggetti, tra cui il Progetto Presidio di Caritas Italiana e di 13 Caritas diocesane, che aiutano e orientano le vittime di tale fenomeno. Il tentativo, concretizzatosi nelle norme contenute nel decreto Rilancio di maggio, di regolarizzare questo serbatoio di manodopera. A questi temi è dedicato un reportage nel numero di agosto-settembre della rivista di strada Scarp de’ tenis, sostenuta da Caritas Italiana e Caritas Ambrosiana. In questa sezione di sito, ne riportiamo (aggiornati) i principali contenuti.
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Nelle campagne italiane, quest’anno, sarebbe dovuta essere un’estate diversa. Complice la pandemia da Covid–19, gli italiani si erano finalmente accorti di quanto le eccellenze agricole, di cui tanto vanno orgogliosi, dipendano in buona parte dal lavoro degli stranieri. A maggio, finalmente, anche il governo aveva voluto prendere il toro per le corna e affrontare la piaga incancrenita dello sfruttamento nelle campagne. E quella connessa del caporalato, che nel Mezzogiorno soprattutto, ma anche in alcune aree del nord del paese, è ancora il principale strumento di reclutamento di manodopera per le raccolte stagionali. Ricordando il suo passato da bracciante agricola, a maggio il ministro Teresa Bellanova si era commossa, annunciando l’approvazione delle norme che, all’interno del cosiddetto “decreto Rilancio”, avrebbero dovuto finalmente restituire «diritti e dignità ai tanti migranti sfruttati nei campi».
Si è visto come è andata finire. A fine giugno, a Mondragone, nel Casertano, la gente è scesa in piazza contro i bulgari accusati di diffondere il virus perché pretendevano di continuare a raccogliere pomodori nei vicini campi, nonostante i casi di Covid. Nei poderi del Foggiano, ma anche a Saluzzo, le condizioni di chi si spezza la schiena per pochi euro all’ora sono rimaste quelle di sempre. Se non, addirittura, peggiorate.
 
Distanza siderale
I numeri stessi mostrano la distanza siderale tra gli obiettivi della legge Bellanova e la triste realtà. Le domande di regolarizzazione arrivante al ministero dell’Interno al 15 agosto, data di chiusura della procedura, sono state complessivamente 207.542. Ma un dato, soprattutto, emerge su tutti: l’85% ha riguardato lavoratori domestici. Precisamente sono state 176.848 (122.247 riguardanti i collaboratori familiari, 54.601 riguardanti i lavoratori che prestano assistenza a persone non autosufficienti, con patologie o handicap). Sono numeri elevati, che confermano il ruolo fondamentale dei cittadini stranieri nei lavori di cura, ma che potrebbero essere stati determinati, almeno in parte, dall’impossibilità di regolarizzare i lavoratori stranieri impiegati nell’edilizia, nella ristorazione e in tutti i settori esclusi dalla procedura. Probabilmente, per molti di loro, le domande sono state presentate nel settore domestico.
Sono mancati all’appello, invece, proprio i braccianti. I dati ufficiali parlano di 30.694 istanze per lavoro subordinato presentate negli altri settori previsti dal decreto, di cui 29.555 in agricoltura, per braccianti stranieri provenienti principalmente da Albania, Marocco, India e Pakistan, registrate principalmente in Campania, Sicilia, Lazio e Puglia, ma anche in Veneto ed Emilia-Romagna (a conferma del fatto che il fenomeno del lavoro nero nei campi non si ferma alle regioni del sud Italia, ma è presente in altri contesti territoriali del paese).
 
Chi paga i contributi?
Che cosa non ha funzionato? La legge era scritta male? O ci sono altre ragioni che la normativa non poteva affrontare? Perché tanta distanza tra gli annunci e la realtà? 
Secondo la Federazione dei lavoratori dell’agricoltura, il sindacato di categoria della Cgil, «la regolarizzazione anziché camminare a passo veloce è proceduta alla velocità di una tartaruga. Non perché non ci sia stato interesse a far accedere gli invisibili all’emersione, quanto piuttosto perché non è mai venuto alla luce un pilastro essenziale».
Quale? Il punto sarebbe, a parere del sindacato, la mancata determinazione dei contributi fiscali e previdenziali che gli imprenditori agricoli dovevano versare per regolarizzare il lavoratore. Un dettaglio fondamentale, che avrebbe dovuto essere specificato da un decreto ad hoc, che non è poi stato varato. 
Di risultati modesti ma ampiamente prevedibili parla anche la Coldiretti, per la quale il provvedimento è arrivato a stagione ormai iniziata e, soprattutto, era fuori fuoco rispetto al target: «È stata fatta passare una semplice sanatoria per colf e bandati come una misura di emersione del lavoro nero», commenta Romano Magrini, responsabile lavoro dell’associazione. Secondo il quale il caporalato nelle campagne italiane andrebbe affrontato con altri strumenti. Innanzitutto con controlli per colpire gli imprenditori disonesti, «che sono un’esigua minoranza, sono concentrati in alcune zone del paese e rappresentano una problema enorme per l’intera categoria degli agricoltori italiani, fatta da tanta gente perbene».
Per Coldiretti la questione è comunque più ampia e va ben oltre il raggio di azione di una legge, forse presentata con eccessiva enfasi. «Dovremmo una volta per tutte affrontare anche il tema del giusto prezzo da riconoscere a chi produce le eccellenze del nostro paese – ragiona Magrini –. Un chilo di arance siciliane viene pagato all’imprenditore agricolo 7 centesimi al chilo, mentre i consumatori lo acquistano, a seconda delle stagioni, a 70 centesimi o 1 euro. Un divario enorme e ingiustificato». Il nodo allora è uno solo: la filiera che porta la frutta e la verdura dai campi fin sopra le nostre tavole, un meccanismo malato che priva le nostre campagne di diritti e dignità.
 
Sei anni di Presidio
In attesa che provvedimenti legislativi e prassi commerciali determinino equilibri più equi, all’interno della filiera, tra piccoli produttori e giganti della distribuzione del cibo, ai lavoratori sfruttati – anello ultimo e debole della catena – continuano a offrire assistenza e aiuto concreto, per il sesto anno consecutivo, gli operatori di 13 Caritas diocesane che hanno aderito al Progetto Presidio. «Le regolarizzazioni sono utili solo se vengono considerate una delle tante azioni possibili contro lo sfruttamento, non l’unica possibile – commenta la coordinatrice, Caterina Boca, di Caritas Italiana –. I colleghi dei Presidi nei territori lo sanno: per questo continuano a svolgere con convinzione il loro lavoro di assistenza, accompagnamento e orientamento».
 
Francesco Chiavarini 
(con il contributo di Caterina Boca)